“Farò qualcosa che stupirà l’universo”, pare abbia detto una volta Jean-Louis Troppmann: forse non l’universo, ma certamente Jean-Louis Auguste Langlois, un contadino che il 20 settembre 1870, mentre andava verso il suo campo non troppo distante da Pantin, vide strane tracce nell’erba di un campo vicino, tracce che si fermavano presso una specie di trincea sormontata da un piccolo cumulo di terra. Langlois cominciò a intuire con angoscia sempre crescente ciò che esso poteva nascondere: scavando, trovò infatti resti umani e inorridito corse a chiamare la polizia. Nelle ore successive, le ricerche sistematiche della gendarmeria condussero al ritrovamento di sei corpi, una bambina di due anni, quattro ragazzini e la loro madre incinta di sei mesi. I cadaveri, mutilati, vennero tutti identificati grazie ai loro abiti: erano tre quarti della famiglia Kinck; mancavano solo il padre, Jean, e il figlio maggiore, Gustave. Nei dintorni furono ritrovati anche le armi del delitto. All’inizio si pensò che il padre e il figlio maggiore avessero ucciso l’intera famiglia. Si arrivò a sospettare di Jean-Baptiste Troppmann solo grazie alla descrizione data dall’autista del fiacre che aveva portato la signora e i suoi figli a Pantin. Il capo della polizia Antoine Claude ripercorse poco a poco la storia e la cronologia degli otto omicidi grazie alla corrispondenza dei protagonisti: le lettere scambiate tra i Kinck ritrovate solo in un secondo momento, che Troppmann non si diede la pena di far sparire, indebolirono notevolmente il suo alibi. Il problema con l’indagine non era tanto la colpevolezza di Jean-Baptiste, bensì trovare le prove schiaccianti che lo inchiodassero. All’inizio, l’assassino scaricò il più possibile la colpa sugli “assenti” Jean e Gustave Kinck. Il 26 settembre, però, un macellaio scoprì a Pantin il corpo di Gustave fino ad allora denunciato come complice da Troppmann. L’imputato volle allora tentare di far credere che il padre avesse eliminato il suo ultimo testimone. Poi crollò totalmente.
Per una volta, infatti, possediamo una confessione completa di pugno del pluriomicida: “Io solo sono l’autore dell’assassinio di Jean Kinck, di Gustave, della signora Kinck e dei loro altri cinque figli”. Per quanto riguarda il padre: “Comprammo una bottiglia di vino e continuammo il nostro cammino verso le rovine del castello di Herrenfluh” (nelle segrete del quale avrebbero dovuto stampare dei soldi falsi). “Prima di arrivare, avevamo già bevuto una parte di vino [..] Avevo in tasca una bottiglietta d’acido prussico che io stesso avevo fabbricato. Approfittando d’un momento in cui Jean Kinck non mi vedeva, ne svuotai il contenuto nella bottiglia. […] Invitai Kinck a bere. Lo fece e cadde folgorato”. In seguito ne seppellì il cadavere, non senza averlo derubato di due assegni (in bianco, fatto non secondario come si capirà meglio tra breve) che su richiesta del futuro killer portava con sé per concludere il fantomatico affare che aveva solleticato l’avidità dell’uomo, fino al giorno prima d’incontrare Troppmann onesto padre di famiglia, ma ora deciso, prima di ritirarsi nel suo paesino d’origine, di migliorare anche con metodi fraudolenti la sua già florida situazione economica. Il giovane diede quindi agli inquirenti delle precise indicazioni perché ne trovassero il cadavere. Dopo il primo omicidio, non riuscendo a incassare uno degli chèque da lui falsificati (l’altro era stato inviato alla moglie di Kinck per distogliere ogni sospetto), cercò di farlo fare a Gustave, il figlio maggiore, ma neppure lui riuscì ad aggirare la burocrazia che nel caso specifico, per una volta, mostrò la sua necessità: bastarono una o due firme non adeguatamente legalizzate per mandare a pallino tutto il disegno di strage + denaro che si era fatto largo nella mente, criminale ma estremamente ingenua, del ventenne. Lì egli si arenò prosaicamente. In seguito, Gustave arrivò a Parigi: “Andai a prenderlo alla stazione; erano le nove e mezzo di sera. Il giovane affermò che non aveva potuto toccare i soldi. Allora gli dissi che l’avrei portato da suo padre [corsivo mio]. Prendemmo l’omnibus fino a la Villette, dove scendemmo, per fare a piedi la strada di Pantin. Quando fummo in un posto isolato, in mezzo ai campi […] mi armai d’un coltello da tavola che avevo acquistato il giorno prima e pugnalai alle spalle il mio compagno. Gustave non diede un grido. Cadde col viso in aria e non si mosse. Se io gli infersi altri colpi, cosa della quale non mi ricordo, fu senza dubbio per renderlo irriconoscibile”. Anche Gustave fu seppellito, stavolta non distante da dove sarebbero morti di lì a pochi giorni i suoi familiari, che proprio il giovane Kinck aveva invitato a Parigi con una lettera (ovviamente era stato Jean-Baptiste a spingerlo a scriverla), senza sapere che in questo modo avrebbe decretato la condanna a morte di sua madre e dei suoi fratelli. Pochi giorni dopo, alle 10 di sera, Troppmann andò a ricevere la donna coi suoi cinque bambini. Nel buio della notte, come nel peggiore degli incubi, l’assassino e la famigliola si fecero lasciare dalla carrozza che avevano preso nel bel mezzo del nulla della campagna di Pantin; lì, continua l’omicida nella sua confessione, “la colpii alle spalle con un coltello da tavola di cui mi ero armato. Non emise un grido. Non ricordo se cadde all’istante. Ricordo soltanto che la pugnalai molte volte, senza poter esser più preciso. Colpii anche i bambini: dapprima la piccola, poi il piccolo. Nessuno gridò. Andai a cercare gli altri tre bambini” che strangolò, quindi li sfigurò e li seppellì. Si noti come in ogni descrizione degli assassinii il reo confesso ci tenga a sottolineare esplicitamente che nessuna delle sue vittime aveva gridato: non si erano neppure accorte di morire = non le aveva fatte soffrire ➜ quasi non le aveva uccise. Infine, cercando disperatamente di trovare motivazioni razionali alle enormità commesse, Troppmann ha il coraggio di aggiungere: “Ho ucciso Kinck padre per appropriarmi dei soldi che m’aveva detto di avere presso il suo banchiere e che gli dovevano esser pagati su suo ordine. Mi proponevo di intestare quest’ordine contraffacendo la scrittura e la firma di Kinck. Una volta ucciso lui, era in certa misura una necessità per me uccidere i membri della sua famiglia, poiché nessuno ignorava che quell’uomo era venuto da me, nel mio paese”. Tutti vennero finiti a colpi di pala, alcuni sepolti ancora vivi.
“Ma è un ragazzo!”, esclamò a una sola voce quando vide il feroce assassino la folla ondeggiante e impaziente che ne aveva atteso per tutta la notte, fino a quell’alba nebbiosa del 19 gennaio 1870, l’esecuzione. Il pubblico era incredulo, ma come scrisse Aragon: “Tu saresti disposto a giurare che io non ho detto questo, non ho fatto quello. Io ho detto questo. Io ho fatto quello.. D’improvviso, alla sua comparsa tutti gli scherzi per passare il tempo fino alle sette e tutte le urla e i muggiti contro di lui cessarono. Il silenzio ebbe la meglio sugli astanti, compresi gli intellettuali come Turgenev, du Camp, Wolff e Sardou ai quali il boia stava graziosamente mostrando il funzionamento della ghigliottina. Ognuno, colto a suo modo di sorpresa, ebbe reazioni del tutto diverse rispetto a quelle che si attendeva dalla propria ragione e dai propri sentimenti verso il condannato a morte. Dall’aspetto fisico di Jean-Baptiste – brutto, bassa statura, figura adolescenziale fino quasi a sfiorare quella di un bambino – era quasi impossibile credere che avesse compiuto da solo un simile misfatto. Fin dall’infanzia dotato di grande energia anche se gracile all’apparenza, intelligente ma introverso, venne viziato dalla madre. Lavorò come meccanico nell’officina di suo padre, un inventore che deteneva diversi brevetti relativi al miglioramento di vari filatoi e accessori. Il futuro del ragazzo sembrava già tracciato: promuovere questi materiali viaggiando in lungo e in largo per la Francia. Tuttavia, alla meccanica preferiva la chimica (arrivò ad allestire un piccolo laboratorio tutto suo) e l’alcol: per queste passioni spese fior di quattrini mettendo a repentaglio il futuro della sua attività. Senza dubbio il contrasto fra i desideri e la realtà pesò su di lui che rimase taciturno, decisamente asociale e perso nei suoi pensieri e nei suoi sogni. Fuggiva apertamente le ragazze non facendo mistero della propria misoginia, neppure con i conoscenti occasionali, come vedremo, mentre a quanto sembra mostrava per converso una condotta molto particolare verso i propri compagni (le fonti non precisano di più) e certamente delle fantasie di un infantilismo quasi toccante in rapporto alla sua età; l’esempio più chiaro resta quanto disse a un tizio che si rivelò poi essere un informatore della polizia: “L’America! Le grandi caccie, la lotta contro gli elementi… Forse mi spingerò fino al Texas per unirmi a degli altri ricconi e accumulare un’enorme fortuna. Ecco ciò per cui vale la pena vivere! Ma non mi si parli di donne e dei mediocri piaceri: sono disilluso …”. La visione romanzesca degli USA faceva il paio con il suo libro favorito, l’Ebreo errante di Eugène Sue; in esso egli si identificava con entusiasmo nel personaggio di Rodin, divorato dalla sete d’oro (per un’eredità di 212 milioni sulla quale Jean-Baptiste fantasticava); in particolare lo seduceva “la sua abilità, il suo accanimento… rassomigliargli per me è diventato un’idea fissa”; proprio come madame Bovary voleva assomigliare alle eroine dei romanzi amorosi che divorava. E pazienza se il suo bottino (5500 franchi che in realtà non vide mai perché Jean per precauzione non li aveva portati con sé nella gita alle rovine del castello, quindi intascò solo 212 franchi e un orologio d’oro) non avvicinava neppure alla lontana quello di Rodin! Se a ciò si unisce la mancanza di scrupoli evidente nei terribili accessi di collera ai quali andava soggetto (nel più grave dei quali diede un esempio che sfiorò la tragedia quando, durante una furiosa litigata col fratello maggiore, lo colpì alla testa con un martello ferendolo), ecco che due più due farà quattro: uccidere l’intera famiglia e prendersi i soldi, ma in maniera totalmente naïf, come in una fiaba nera. Arraffare tutto con quei pollici, lunghi quasi come gli indici, che ricordavano da vicino le chele di un granchio o le mani mostruose del batmaniano Pinguino, quei pollici che avevano stretto il coltello e il fazzoletto coi quali l’assassino si era liberato dei Kinck… Senza tener conto degli ostacoli del mondo degli adulti. Abbiamo parlato di fiaba nera, come immaginata da un Collodi delle atrocità, e in effetti una parte della strage compiuta, quella relativa alla signora (fra l’altro incinta di sei mesi) e ai figli più piccoli, la pare proprio. Il conducente della carrozza fu il primo a stupirsi quando Troppmann si fece lasciare di notte, nel bel mezzo della campagna di Pantin in compagnia della moglie di Kinck e dei suoi figlioletti, insieme ai quali scomparve nella boscaglia alla volta di una misteriosa casa (che naturalmente non esisteva) dove Kinck li avrebbe aspettati. Una scena assurda che non convinse per nulla l’uomo, ma la corsa era stata pagata e dopotutto non erano affari suoi…
Nei giorni successivi al fattaccio, il campo Magnin divenne una sorta di parco turistico dell’orrore, dove si vendevano patatine fritte e fette di pane speziato, dove musicisti e ricchi borghesi andavano scontrandosi con pezzi di cadavere ancora nascosti nel paesaggio naturale (quello di Gustave, che in prima battuta non era stato ritrovato), mentre grazie alle gesta di Troppmann Le Figaro raddoppiava la sua tiratura e Le Petit Journal arrivò a una vendita di cinquecentomila copie (e di 594.000 il giorno della sua esecuzione) triplicando addirittura il numero di esse con lo sviluppo furbesco dei vari particolari più o meno macabri che concernevano la strage. Come abbiamo già anticipato, gli intellettuali dell’epoca (e non solo) si interessarono dell’evento. Troppmann venne citato, sia pure casualmente, in Dio e lo stato di Bakunin, da Turgenev, che gli dedicò addirittura un libro (l’autore di Padri e figli in seguito venne criticato dal suo compatriota Dostoevskji perché all’ultimo momento distolse lo sguardo dall’esecuzione), e poi da Rimbaud, che si riferì all’assassino in “Paris” (1871); la vicenda colpì anche Flaubert, Barbey D’Aurevilly e infine – molti anni dopo – fu citato da Cortázar in Hopscotch. Non poteva mancare, ma la cosa è in un certo senso più ovvia, la penna dello stesso assassino con le Mémoires secrets de Troppmann: Autographe et portrait – Révélations nouvelles… I nomi legati alla tragedia, poi, sembravano esser stati scelti con accuratezza per avere una certa fortuna letteraria: Trop (“troppo” in francese) e man (“uomo” in inglese), con una connotazione ironica se confrontato alle fattezze fisiche dell’individuo a cui si riferisce e didascalica se al massacro di cui invece fu incredibilmente capace, e Pantin (“burattino”, “fantoccio” in francese), il luogo che all’epoca faceva pensare alle stranezze orrorifiche del Grand-Guignol e che dopo i tremendi fatti avvenuti in quella cittadina indusse Cham (un disegnatore ben noto all’epoca che aveva rispetto verso una parola divenuta tristemente celebre) a non volere più che essa si riferisse allo schizzo di una sua marionetta.
Quella che spinse il giovane fra le braccia della legge fu una sorte bizzarra, o per essere più precisi l’intuizione da vero segugio del brigadiere Eugène Ferrand di Le Havre. Questi, messo sull’avviso da un suo confidente che Jean-Baptiste voleva ad ogni costo imbarcarsi per l’America ed era disposto ad acquistare dei documenti falsi per farlo, lo fermò e, dopo aver appurato che era privo dei propri, ebbe l’idea – forse sulla scorta dell’enorme eco suscitata nell’opinione pubblica per quanto era accaduto ai Kinck qualche giorno prima – di chiedergli se era arrivato alla città portuale per imbarcarsi non passando da Parigi, come aveva dichiarato, bensì da Pantin, nome che da solo convinse l’assassino di esser stato scoperto (quasi il flic gli avesse letto nel pensiero), e fece esplodere in lui un improvviso desiderio di fuga e poi di suicidio che lo condusse a tentare l’annegamento nelle acque del porto, dal quale venne salvato contro la propria volontà e portato al posto di polizia dove gli vennero prestate le prime cure.
La confessione citata più sopra non fu l’unica di Troppmann: man mano che i suoi fantasiosi propositi di fuga, più debitori ai feuilleton letti che alle possibilità offertegli dalla realtà (in pratica nessuna che collimasse con la sua idea demenziale di un farmaco in grado di procurargli una morte apparente), cominciò a parlare (e a scrivere) di complici dei quali non poteva rivelare l’identità, di agenti segreti prussiani (forse un’associazione delirante fra l’acido prussico e l’esplosiva situazione politica che nello stesso 1870 porterà la Francia alla guerra e alla sconfitta proprio con la Prussia) con l’ovvio scopo di scaricare proprio su tali fantasmi le colpe maggiori della strage. In effetti, lo sterminio in contemporanea dei cinque Kinck senza che neppure uno dei ragazzini riuscisse a darsela a gambe sembrava di primo acchito piuttosto difficile da attuare per un solo uomo, ma i medici legali ammisero l’eventualità come verosimile. L’avvocato di Troppmann sostenne che era impossibile uccidere sei persone senza risvegliare il vicinato o richiamare l’attenzione del conducente del fiacre che aveva condotto a Pantin il gruppo; la corte, tuttavia, non gli prestò mai ascolto. Allo stesso modo, le successive illazioni del capo della polizia, Antoine Claude, risultano tirate per i capelli: in un suo libro di memorie, questi parla di complici sovrapponendo il massacro dei Kinck a un evento del passato, nel quale si erano mescolati una banda di falsari e degli agenti segreti prussiani, sul quale le autorità erano intervenute insabbiandolo. Secondo Claude, Kinck sarebbe stato eliminato da Troppmann (agente dei germanici) per aver scoperto il progetto d’invasione tedesca e forse aver sottratto dei documenti che concernevano tale azione, mentre il resto della famiglia lo sarebbe stato per garantirsi al cento per cento che nessuno sapesse nulla, figlio maggiore o moglie che fossero. Il capo della polizia riteneva che Jean-Baptiste non avrebbe potuto ammazzarli tutti da solo, per questo pensava a una cospirazione. A proposito di opinione pubblica, va ancora ricordato che la strage della famiglia Kinck la scosse al punto da fare passi da gigante – ma all’indietro – all’abolizione della pena di morte, previsione di Maxime du Camp che nulla verrà a smentire anche a distanza di oltre un secolo (solo nel 1981 arriverà l’anno della sua abolizione)… e tuttavia, nonostante la presunta normalità della legge del taglione, restano vere le parole di Turgenev a proposito del fatto che al momento dell’esecuzione di Troppmann ognuno dei presenti sembrava commettere un atto trasgressivo, accentuato anche dal fatto che il ragazzo sul patibolo ebbe un’improvvisa reazione dettata dal principio di conservazione che lo condusse a lottare con una ben comprensibile furia selvaggia contro i carnefici e a mordere il boia. Nel preciso momento in cui l’uomo colpevole si trasformava in cadavere innocente tutti divennero a loro volta dei criminali, insomma, tutti tranne i cavalli dei soldati che mentre la ghigliottina cadeva masticavano tranquillamente la loro avena.
Gianfranco Galliano
Nota
Tranne quanto raccontato da Wikipedia e dal video di Marylin Chignet Il massacro di Pantin, il peggiore crimine francese, in italiano si trova soltanto il libro di Ivan Turgenev, L’esecuzione capitale di Troppmann. Per il mio pezzo mi sono basato in particolare su Trois monstres di Peter Hessling e Le massacre du Pantin: Ou L’affaire Troppmann.