Il Graal si presenta, nelle realtà percepibile, come un oggetto astratto di cui non si conosce né la forma e né la natura, per questo motivo potrebbe trattarsi di qualcosa di metafisico e ultraterreno.
Alcuni ricercatori ritengono che si tratti di una pietra, altri affermano che appaia, nella realtà fisica, sotto forma di: un libro, un calice, una scodella, un piatto oppure una testa scolpita, però potrebbe trattarsi anche di una pietra a cui è stata data la forma di nappo con delle lettere incise sopra di esso; in altre parole il Graal potrebbe essere una pietra da cui è stato ricavato un calice che, però, si legge come un libro!
Non è escluso che esso rappresenti la testimonianza dell’istituzione del rito dell’Eucarestia, oppure di libri sacri che riportano cerimonie note solo agli iniziati!
Non si può escludere neanche l’ipotesi che esso stia a indicare ricorrenze dedicate alla dea universale della fecondità conosciuta come Magna Mater, oppure che sia uno dei tanti nomi ed epifanie della Magna Mater stessa!
E’ pur vero che non possiamo neanche scartare l’ipotesi secondo cui il Graal sia l’eterna ricerca delle origini dell’essere umano stesso e la sua sete di sapere!
Tra le tante leggende fiorite intorno a questa reliquia alcune di esse possono essere ricollegate a saghe celtiche in cui l’eroe, possessore di quest’oggetto, riesce a spostarsi attraverso un mondo soprannaturale posto su di un piano magico uguale e parallelo al nostro. In tali narrazioni epiche la sua forma era quello di un piatto o di una coppa, che sembra richiamare l’inesauribile cornucopia dell’abbondanza della tradizione greco-romana.
Jean Chevalier e Alain Cheerbrant nel Dizionario dei Simboli affermano che: “Nella tradizione greco-romana essa è un «simbolo della fecondità e della felicità, che si ricollega sia al mito di Giove e di Amaltea (la capra o la ninfa che nutrì con il suo latte il dio bambino) sia a quello di Ercole e di Acheloo. Piena di messi e di frutta, l’apertura in alto e non in basso come nell’arte moderna, essa è l’emblema di numerose divinità: Bacco, Cerere, i Fiumi, l’Abbondanza, la Costanza, la Fortuna, ecc.».
Fu Zeus che, avendo rotto giocando il corno della capra che lo allattava, l’offrì alla sua nutrice Amaltea, promettendole che questo corno si sarebbe riempito in futuro di tutti i frutti che essa avrebbe desiderato. La cornucopia rappresentata la profusione gratuita dei doni divini.
Secondo un’altra leggenda… la cornucopia sarebbe un corno del fiume Acheloo, il più grande fiume della Grecia, figlio di Oceano e di Teti, la divinità del mare, il maggiore di più di tremila fiumi e padre di innumerevoli fonti. Come tutti i fiumi, aveva il potere di trasformarsi in tutte le forme che desiderava: in occasione di un combattimento che l’oppose a Eracle per il possesso della bella Deianira, si trasformò in toro, ma avendogli Ercole spezzato un corno, si dichiarò vinto. In cambio della restituzione di questo corno, offrì a Eracle un corno della capra Amaltea da lui posseduta. La cornucopia sarebbe, quindi, quella di Acheloo, il dio fiume, che una ninfa aveva raccolto e riempito dei frutti più deliziosi, o quella della capra che allattò Zeus? A seconda della versione adottata, abbondanza verrebbe dall’acqua o dal cielo: ma non forse il cielo, con le sue piogge, ad alimentari i fiumi?
Successivamente, la cornucopia è diventato l’attributo, piuttosto che il simbolo, della libertà, della felicità pubblica, dell’occasione fortunata, della diligenza e prudenza, che sono alle fonti dell’abbondanza, della speranza e della carità, dell’autunno-stagione dei frutti, dell’equità e dell’ospitalità.
Il simbolo molto esteso della coppa si presenta sotto due aspetti essenziali: quello di vaso dell’abbondanza e quello del vaso contenete la bevanda dell’immortalità”. (1)
A proposito della cornucopia dell’abbondanza Laura Rangoni, dice che: “In genere Epona era raffigurata su un cavallo o posta accanto a dei cavalli, con vari oggetti simbolici; in area gallo-romana era anche assimilata a Cerere…
La presenza tra le sue mani della cornucopia emblema dell’abbondanza. Inoltre, in epoca altomedievale, Epona fu anche assimilata a Hera, divinità celtica…
In Hera, Era o Haerecura… portatrice di abbondanza, vagasse volando durante i dodici giorni tra Natale e Epifania.
Hera legata a Diana, da cui Herodiana (in seguito trasformata in Erodiade), era la dea notturna per eccellenza…
Alcuni tra i massimi studiosi del folklore, e in particolare Propp, ritengono che vi sia una relazione diretta tra i miti primitivi che riguardano il culto della Grande Madre, i culti della fertilità e le fate… Propp ha messo in evidenza le analogie tra la fata-maga e Cibele, in quanto entrambe custodiscono il regno dei morti e sono signore degli animali.
E’ incerto se far derivare l’etimologia della parola fata della dea Fauna, chiamata anche Bona Dea…”. (2)
Secondo alcune versioni, il Graal, era lo smeraldo più prezioso e lucente del diadema di Lucifero, l’Angelo più bello del Creato. Esso cadde sulla Terra quando questi si ribellò al volere di Dio e ingaggiò una battaglia con gli Angeli e fu raccolto dagli uomini che lo usarono per fini non sempre nobili.
Secondo gli autori de “Il Santo Graal”: “La differenza più evidente risiede nella presentazione stessa del Graal, descritto come una pietra preziosa d’origine celeste ma d’imprecisate forma e dimensioni…
La sacra reliquia, qui, non è né la coppa che contiene l’ostia e che già contenne il sangue del Cristo, come Chétien, né il calice dell’Ultima Cena e di Giuseppe d’Arimatea: è invece una pietra preziosa, che sembra rinviare peraltro alla Pietra Angolare figura del Cristo stesso, il Lapis associato in area germanica alla pietra incastonata nella corona imperiale e detta der Waise, “l’Unico” (e in senso “l’Orfano”) o der Weise “il Saggio”.
Attorno alla definizione del Graal data da Wolfram, quella effettivamente misteriosa di lapsit exillis, si è scatenata una ridda d’ipotesi. L’accostare l’espressione lapsit exillis a quella di lapsit elixir, interpretabile come “pietra filosofale”, avrebbe infatti consentito un più stretto collegamento con la cultura arabo-musulmana e un rifarsi pertanto al mondo neoplatonico-ermetico, con il mito del Cratere, sede dell’intelligenza e simbolo di rinascita…
L’espressione lapsit exillis (cioè lapis exilii, “pietra dell’esilio”?) come lapis e coelis, avvicinando la pietra del Graal di Wolfram a una stella caduta (la pietra che secondo alcune leggende orna la corona di Lucifero e precipita con lui dall’alto dei cieli) e quindi all’anima imprigionata nella materia e liberata dalla potenza dello Spirito”. (3)
E’ molto interessante la descrizione che viene fatta da Chrétien del Graal: “Tra l’altro, a questo punto il Graal appare come una storia di magica cornucopia o corno dell’abbondanza.
Cento cavalieri, avendone ricevuto l’ordine, con reverenza presero il pane in salviette bianche davanti al Graal, arretrarono in gruppo e, separandosi, distribuirono il pane a tutte le tavole. Mi fu detto, e lo riferisco a voi… che se qualcuno tendeva la mano per ottenere qualunque cosa, la trovava pronta davanti al Graal, vivande calde o vivande fredde, piatti nuovi o vecchi, carne animali domestici e cacciagione.
…Il Graal era il frutto della beatitudine, una tale abbondanza delle dolcezze del mondo che le sue delizie erano pari a quelle che ci vengono descritte del regno dei cieli.
…Là vive una schiera di volenterosi, ed io ti dirò come si sostentano. Essi vivono grazie a una pietra della specie più pura…
E’ chiamata lapsit exillis. Grazie al potere di quella pietra, la fenice arde e si riduce in cenere, ma la cenere le ridona la vita. Così la fenice muta e cambia piumaggio, che dopo è fulgido e splendente e bellissimo come prima. Non vi fu mai umano tanto gravemente malato che, se un giorno vede la pietra, possa morire entro la settimana che segue. E il suo aspetto non diverrà smunto. Il suo aspetto rimarrà lo stesso, sia una fanciulla o un uomo, come nel giorno in cui vide la pietra…
Ascolta ora come vengono resi noti coloro che sono chiamati dal Graal. Sulla pietra, intorno all’orlo appaiono lettere che indicano il nome ed il lignaggio di ognuno, fanciullo o fanciulla, che deve intraprendere questo viaggio benedetto. Né è necessario cancellare le iscrizioni, poiché quando egli ha letto il nome, questo svanisce davanti ai suoi occhi”. (4)
Gli autori de “Il Santo Graal” affermano che: “Con l’aiuto anche dei testi evangelici apocrifi, si era andato così tessendo un “romanzo del Santo Calice”, che coinvolge le leggende relative a Pilato, all’imperatore Vespasiano, alla reliquia romana dell’immagine del volto di Gesù (la Veronica), e dove si narrava come Giuseppe d’Arimatea, ereditato il Graal, lo avesse affidato a compagni sicuri…
Molte sono le reliquie del Sangue del Cristo conosciute nella Cristianità. Esse possono essere di tre tipi: della Passione…; reliquie relative a miracoli eucaristici…; reliquie del sangue miracolosamente sprizzato da ostie o da immagini profanate…
Note, fra l’altro, le ampolle di Santo Sangue che si dicevano trovate all’interno del crocifisso celebrate come “Santo Volto”, giunto a Luni dalla Terrasanta – secondo la leggenda nel secolo VIII, in realtà più probabilmente nell’XI – e passato quindi a Lucca.
…Né mancano le chiese che vantavano addirittura il possesso del recipiente nel quale Gesù aveva consacrato il vino durante la Cena, e che poi era servito a Giuseppe d’Arimatea per raccogliervi il sangue scaturito dalle Sue ferite (ma gli angeli che raccolgono in un calice il sangue del Cristo sono frequenti nelle scene pittoriche tardo-medioevali di crocifissione). I pellegrini alto-medievali segnalano la presenza del calice dell’Ultima Cena nella chiesa dell’Anàstasis di Gerusalemme, ne parla per la prima volta il monaco Adamnano riferendo la testimonianza del vescovo gallo-franco Arculfo, il quale lo avrebbe visto nel 640 durante un viaggio in Palestina; riprende poi la notizia Beda il Venerabile (675 – 735). Entrambi lo descrivono come un calice d’argento, dotato di manici e piuttosto capiente: avrebbe infatti avuto la capacità di un sestario gallico, pari a più di sette litri. Non è chiaro quando fu trafugato: forse nel 1009 durante le distruzione del califfo fatimide al-Hakim o nel 1187 quando Gerusalemme fu presa dal Saladino (ma ciò è improbabile, dal momento che esso non è mai menzionato dalle fonti della Gerusalemme del periodo crociato; d’altronde il sultano non violò la chiesa del Santo Sepolcro).
Nel maggio 1101 i marinai genovesi avevano conquistato la città di Cesarea sul litorale palestinese: tra le prede riportate da quella città – e deposte nella cattedrale dedicata a San Lorenzo – il grande cronista della crociata del XII secolo, Guglielmo di Tiro, menziona un «recipiente di colore verde intenso a forma di piatto che […] i genovesi, credendolo di smeraldo, […] vollero offrire come insigne ornamento per la loro chiesa». Si tratta del Santo Catino di Cesarea, un piatto largo in pasta vitrea – e di forma esagonale del diametro di32 centimetri e mezzo e della capienza di circa tre litri -, ancor oggi tra le glorie del tesoro della cattedrale genovese.
…Intanto acquistava fama crescente nella Cristianità – specie da quando, nel 1238, la città di Valencia era stata riconquistata dai crociati spagnoli – il Santo Calice costituito da una pietra di calcedonio montata in oro custodito nella cattedrale di quella città. Secondo la tradizione si trattava del calice dell’Ultima Cena, che Pietro aveva portato a Roma, quindi passato a San Lorenzo – diacono della chiesa di Roma, iberico d’origine, custode del tesoro della comunità cristiana dell’Urbe – inviato a Huesca durante la persecuzione di Valeriano. Da Huesca il calice era passato nel 713 al monastero di San Juan de Peña, da dove i re d’Aragona lo avevano traslato nel1399 aSaragozza e poi nel1347 aValencia. Non è escluso che la dedicazione laurenziana della loro cattedrale e la conoscenza del leggendario rapporto fra il diacono Lorenzo e il calice dell’Ultima Cena abbia incentivato l’identificazione, da parte dei genovesi, dell’oggetto appartenenti al bottino riportato da Cesarea con la reliquia della Consacrazione.
…Il sia pur solo preteso smeraldo di Genova e il calcedonio di Valencia richiamano al fatto che recipiente dell’Ultima Cena era secondo la tradizione, ricavato da un’unica pietra. Un lapis unicum come la gemma della corona imperiale di Aquisgrana: Gesù si era presentato, non dimentichiamolo, come Pietra Angolare”. (5)
Franco Cardini, Massimo Introvigne e Marina Montesano sostengono che: “Il Graal rientra, dal punto di vista tipologico, nella grande serie degli “oggetti magici” dono dell’Altro Mondo e che producono inesauribili ricchezze…
A livello letterale la cerca del Graal è solo una bella avventura cavalleresca; ma a livello allegorico essa è il racconto del processo iniziatico che conduce alla conquista della sapienza, cioè alla liberazione dalla prigione delle apparenza; a livello morale inoltre la cerca indica il dovere di uscire da quella prigione; il che significa come, a livello anagogico, cioè spirituale, il Graal possa essere quel che il mistico e alchemico Raimondo Lullo definisce lo scopo d’ogni sete di sapere e ogni forma d’amore…
Il cavaliere del Graal, in quanto cercatore di se stesso – il Graal come aspirazione interiore oggetto di uno junghiano “processo d’individualizzazione” -, è anche un cercatore di Dio: il che qualifica la cerca del Graal come esercizio ascetico, conquista, “guerra santa interiore”. D’altronde, la cerca è infinita: il Graal resta ineffabile e insondabile; e tale ineffabilità, tale inesorabilità permane il nucleo ultimo del suo mistero.
Al Graal compete un paradossale privilegio: è un “oggetto misterioso”, sfuggente ma anche abbastanza noto, un’araba fenice cui si attribuisce a livello di idee diffuse la forma approssimativa di un calice eucaristico e che si mette in relazione con l’Ultima Cena e il sangue sparso da Gesù sulla croce e nel sacro vaso, appunto, raccolto… Graal un oggetto che si presenta in varie forme all’interno di differenti sistemi mitico-religiosi, dotato sempre e comunque di un valore universale; oppure un simbolo di potere e di conoscenza…
Il Graal si situa proprio all’incrocio nel quale queste due scienze dell’uomo – l’antropologia e la storia – convergono e s’incontrano.
La parola graaus (al nominativo; nei complementi, graal) è attestata in lingua d’Oil almeno a partire dal Roman d’Alexandre del 1160-70: il Du Cange riferisce che il latino gradalis, corrisponde a graaus, è contenuta nel testamento del conte Ermengaud d’Urgel (1010) che dona all’abbazia di Sainte Foy di Conque «gradales duas de argento». Nella Cronica di Elinando di Froidmont, abbazia vicina a Bruges in cui è conservato una reliquia del Santo Sangue, la parola gradalis designa il piatto o la scodella in cui il Cristo ha mangiato con i discepoli in cui fu raccolto il Santo Sangue…
Con la parola Gradals o Gradale i francesi chiamano una scodella larga e piuttosto profonda dove i ricchi sono soliti disporre vivande prelibate insieme al loro sugo, una dopo l’altra (gradatim), un boccone dopo l’altro, in strati diversi. La scodella è detta comunemente Graalz, giacché è cosa gradita e piacevole mangiare intorno ad essa, sia per il contenitore, di solito d’argento o di altro materiale prezioso, sia per il contenuto, una sequenza varia di cibi prelibati…
Nell’area di Troyes la parola graal esisteva da molto tempo come nome comune per indicare un piatto o una scodella. Ma anche altre regioni della Francia conoscevano varianti di questo termine col medesimo significato…
Ora, Chétien descrive il suo graal come un piatto largo e abbastanza capiente e profondo da contenere un grosso pesce, mentre un testo primoduecentesco, la prima “Contaminazione anonima” del Perceval, ne tratta come di un recipiente tanto grande e profondo da contenere una testa di cinghiale.
Si è in altri termini dinanzi a un oggetto in origine d’uso corrente, magari addirittura umile e quotidiano. Si tende a pensare che etimologicamente esso sia la sintesi di due parole latine, crater (panciuto vaso vinario) e vas garale (un recipiente atto alla conservazione della salsa latina detta garum: di nuovo qualcosa a che fare con il pesce)”. (6)
In alcune versioni del mito del Graal si sostiene che quando Seth, il figlio di Adamo ed Eva, cercò di salvare suo padre da una letale malattia, tornando nell’Eden, egli non trovò nessuna cura specifica per lui, ma una cura per tutti i mali del mondo, insieme a una promessa che Dio non avrebbe mai abbandonato il genere umano e pare che questo fosse il Graal.
Questo oggetto smette di essere qualcosa di metafisico per entrare nella realtà percepibile, quando Giuseppe d’Arimatea, un ricco ebreo forse parente di Gesù, raccoglie il Sangue del Cristo proprio nella coppa che poi verrà definita Santo Graal.
Dopo la crocifissione, il corpo di Gesù, fu dato in consegna a Giuseppe d’Arimatea e gli fu dato anche la coppa dell’Ultima Cena, con la quale il maestro celebrò questo rito.
L’ebreo lavò il corpo del defunto, ma mentre faceva questo dalle ferite uscì del sangue che Giuseppe raccolse nella coppa, quindi il corpo fu avvolto in un sudario e fu messo nel sepolcro, ove dopo tre giorni resuscitò.
Dopo la resurrezione Giuseppe fu imprigionate dai romani con l’accusa di sottrazione di cadavere e privato del cibo, fu lasciato languire in un’umida cella, dove un giorno gli apparve Gesù risorto ammantato di luce che gli consegnò la coppa rivelandone, anche le virtù della medesima; Giuseppe fu tenuto in vita grazie a una colomba che portava tutti i giorni un’ostia nella coppa.
Era il 70 d.C. quando Giuseppe d’Arimatea fu scarcerato, insieme a sua sorella e a suo cognato Bron. Questi scelsero, per causa di forza maggiore, l’esilio e partirono su una nave che li portò oltreoceano, verso un’isola sconosciuta dove, perpetrarono le loro tradizioni. Qui costruirono una tavola come quella usata per l’Ultima Cena dove presero posto dodici commensali, mentre il tredicesimo fu lasciato vuoto, perché era quello che avrebbe dovuto essere occupato da Gesù o da Giuda. Se questa sedia veniva inavvertitamente occupata essa eliminava all’istante il commensale, per questo esso ebbe il nome di “Seggio Periglioso” e la tavola fu chiamata “Prima Tavola del Graal”.
Passarono alcuni anni in questa terra sconosciuta e Giuseppe sentì il bisogno e la voglia di andare via e durante uno dei suoi tanti pellegrinaggi per le vie del mondo, si fermò in Bretagna precisamente a Glastonbury, dove fondò la prima comunità cristiana che doveva soppiantare l’antica religione dei Druidi. Il primo tempio cristiano, qui fondato, fu dedicato alla Madonna o, secondo alcune versioni, a Maria Maddalena ed è in questo luogo che rimase il Graal che veniva utilizzato durante la funzione religiosa.
Alla morte di Giuseppe il Graal fu custodito da suo cognato che grazie alla coppa riuscì a sfamare tutti i suoi seguaci. Dopo Bron il Graal passò nelle mani di un nuovo custode che conservò la sacra reliquia in un castello sulla Montagna della Salvezza di cui ignoriamo l’ubicazione.
Nacque in quegli anni anche un ordine cavalleresco che venne denominato come l’Ordine dei Cavalieri del Graal, con il compito di proteggere questa coppa; essi si nutrivano delle ostie che la reliquia dispensava e il loro capo e custode del divino recipiente ricopriva la carica di Re Sacerdote.
Uno di questi custodi fu ferito, secondo alcune versioni, dalla lancia di Longino e divenne sterile come la terra nella quale era ubicato il castello che custodiva la divina coppa.
Molti hanno visto un parallelo tra il Re Ferito, come venne denominato da allora in poi il custode del Graal, e la figura di San Rocco che in molte immagini viene raffigurato con una ferita alla gamba.
Il Re Ferito trovava sollievo solo pescando e così fu definito anche come Re Pescatore ed egli sarebbe stato salvato da una domanda ben precisa fatta da un cavaliere puro di cuore; è da qui che inizia la saga di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda di cui parleremo in seguito.
Tornando alla lancia di Longino, essa è l’arma con cui il centurione romano trafisse il costato di Gesù crocifisso: pare che avesse, come il Graal, delle doti magiche molto forti, perciò fu custodita insieme ad altre reliquie come: una spada e il piatto che resse la testa di Giovanni Battista, all’interno del castello del Monte della Salvezza.
Questi quattro oggetti magici hanno influenzato la nostra cultura italiana poiché sono riprodotti nei semi delle carte da gioco.
Questa tradizione degli oggetti magici ha radici molto antiche e profonde presenti in culture millenarie come quelle asiatiche nelle quali si raccontano leggende secondo cui degli angeli sarebbero scesi dal cielo e si sarebbero stabiliti nel deserto dove avrebbero rivelato agli uomini la loro cultura superiore.
Prima di scomparire per sempre questi dei avrebbero lasciato quattro potentissimi talismani in grado di conferire poteri simili ai loro dei: una pietra, una spada, un calderone e una lancia. Questi oggetti sono presenti in quasi tutte le tradizioni. La pietra, ad esempio, potrebbe essere quella nera della Ka’ba, la spada potrebbe essere quella nella roccia, la coppa il Graal e la lancia forse quella di Longino.
Alla morte di Erode, Israele fu divisa in un mosaico di staterelli, che solo nel 6 d.C. divennero Provincia romana, con tutti gli onori e oneri che ciò comportava.
Gli ebrei insofferenti all’allora stato di cose insorsero, dapprima con piccole sommosse culminate poi in vere e proprie rivolte. Mentre la Galilea bruciava, Roma inviò un poderoso esercito per domare questi fuochi atti a spezzare il giogo degli invasori; paese dopo paese, città dopo città la zona settentrionale della Galilea si arrese e l’esercito giunse fino alle mura di Gerusalemme dove, forse corrotto dagli insorti, esso si fermò. Nonostante queste vittorie, gli ebrei continuarono a lottare e così nel 66 d.C. il generale Vespasiano, futuro imperatore, fu incaricato di riportare la pace nella provincia. Era il 68 quando le truppe del futuro imperatore si fermarono a causa della morte dell’imperatore Nerone e tornarono a Roma. Nei diciotto mesi di tregua, gli ebrei non riuscirono a riorganizzare una resistenza duratura e così, mentre Vespasiano fu incoronato imperatore, suo figlio Tito partiva alla volta di Gerusalemme per riconquistarla.
L’assedio fu lungo e sanguinoso ma alla fine i romani ebbero ragione degli assediati e così entrarono trionfalmente in città dove si abbandonarono a ogni genere di violenza. Molti furono crocifissi sulle mura della città, le strade pullulavano di cadaveri appesi alle croci, il tempio fu profanato, derubato bruciato e infine raso al suolo, sulla cui terra fu buttato il sale.
Alcuni gruppi di persone appartenenti alla casta degli Zeloti si arroccarono nell’antica fortezza di Masada, essi resistettero per lungo tempo, finché, come narra una leggenda, una ragazza si innamorò di un soldato; essa, per amore, rivelò all’uomo dove erano i pozzi che alimentavano la città; i romani, allora, chiusero i pozzi e gli assediati furono costretti a arrendersi, ma per non subire l’onta della sconfitta si uccisero tutti. I romani penetrarono nella cittadella e trovarono solo tanti cadaveri sparsi per la città.
Dopo aver domato la rivolta, Tito fece erigere delle mura intorno al monte Golgotha e vi mise della terra intorno, quindi lo fece spianare fino a trasformarlo in un pianoro, che conteneva al suo interno il Sepolcro con le spoglie mortali del Cristo. Non contento di ciò proibì il culto del cristianesimo e gli ebrei furono costretti a disperdersi per i quattro angoli del mondo.
Furono anni difficile per i cristiani e le loro tradizioni, queste infatti, furono affidate a sette segrete con a capo un vescovo di nome Marco.
Con l’avvento di Costantino sul trono, le cose cambiarono radicalmente; i cristiani uscirono dalla clandestinità e quando nel 314 divenne signore anche delle terre d’oriente, lui e sua madre Elena rimasero affascinati dalle leggende che aleggiavano intorno al Santo Sepolcro. Così in breve tempo si iniziarono gli scavi per riportare alla luce questi tesori; si narra che, durante questi lavori, Elena avesse trovato un oggetto, forse una coppa, dove si raccolse il Sangue di Gesù.
A questo punto la storia del Graal si fa sempre più confusa e lacunosa; secondo alcune fonti esso finì in Britannia, dopo che Roma fu depredata dai Visigoti nel 400 d.C. e pare che questa reliquia giaccia in fondo a un pozzo a pochi passi dalla presunta tomba di un nobile cavaliere, forse re Artù.
Altre testimonianza parlano di un imperatore bizantino che nel I secolo d.C., dopo aver sottratto ai persiani alcune reliquie, forse anche il Santo Calice, le fece portare a Costantinopoli.
Alcune leggende affermano che a Costantinopoli vi fossero confluite tantissime reliquie sacre tra cui la Sindone, i Chiodi con cui Gesù fu crocifisso, alcune spine della Corona, di cui una oggi è a Vasto e naturalmente il Graal, che pare contenesse la Sindone medesima.
Sembra che questi due oggetti abbiano seguito lo stesso cammino, ma queste sono solo supposizione; comunque il Santo Sudario, nel 1204 durante il sacco di Costantinopoli da parte dei Templari, era qui e fu portato poi a Lirey in Francia e da qui a Torino.
Una delle caratteristiche peculiari di questa reliquia sembra essere quella di donare al suo possessore un potere immenso e una larghezza di mezzi illimitata, come quello che aveva San Nicola.
Il culto di San Nicola è arrivato in Abruzzo attraverso il tratturo L’Aquila – Foggia. Egli è patrono di Pollutri, graziosa cittadina abruzzese situata poco lontano da Vasto. Il suo territorio è attraversato dai fiumi Sinello e Osento ed è ammantato da magnifici vigneti, uliveti e una volta anche da uno sterminato bosco, di cui una parte viene riportata anche dalle mappe catastali risalenti all’Unità d’Italia. Di esso oggi rimane solo un piccolo pezzetto chiamato “Bosco di don Venanzio” e la “Quercia di San Nicola”, albero sacro dedicato al Santo Patrono di Pollutri.
La quercia infatti è, secondo quanto ci riferisce Antony S. Mercatante: “Albero robusto, sacro al dio del cielo dei Greci, Zeus e alla sua controparte romana, Giove. L’oracolo di Zeus a Dodona, si trovava in un bosco di querce, dove la sacerdotessa pronunciava gli oracoli dopo aver ascoltato il fruscio delle foglie. Sia nella mitologia greca che in quella romana il primo cibo degli esseri umani fu la ghianda, frutto della quercia. Gli indiani dell’America settentrionale, che mangiavano le ghiande, credevano che la quercia fosse un dono di Wy-ot, il primogenito della terra e del cielo.
In Germania, quando Bonifacio VIII volle convertire la popolazione, una delle sue prime azioni fu quella di distruggere la quercia sacra ai Druidi, poiché si riteneva fosse la dimora di demoni, draghi e nani”.
Vox populi afferma che l’immensa selva che costituiva il succitato bosco, desse rifugio alle più diparte figure mitologiche e non, comprese fate, streghe, gnomi e naturalmente briganti che vi sotterrarono immensi e favolosi tesori!
Si racconta che un principe longobardo voleva fondare una città nel luogo dove avrebbe ritrovato il suo adorato puledro perduto e, a quanto pare, lo ritrovò nel posto in cui oggi sorge Pollutri, da qui forse l’etimo del nome. Secondo altri il suo nome deriva da un tempio dedicato a Polluce, mentre altre fonti parlano di nome di derivazione greca che significa “molta acqua”. Esso fu un possedimento dei Caldora, dei Capua ed infine dei D’Avalos.
Come abbiamo detto la venerazione di San Nicola giunge a Pollutri attraverso il tratturo Magno o del Re, grazie anche a una reliquia consistente in una rappresentazione del braccio del Venerabile.
La leggenda vuole che a Pollutri San Nicola durante una forte carestia che aveva investito questo paese, disponendo solo di poche fave, le moltiplicò all’infinito, riuscendo a sfamare tutti!
In ricordo di questo miracolo la prima domenica di maggio e il 6 dicembre si celebrano delle cerimonie che commemorano questo fatto prodigioso.
Le donne e quelli del comitato delle feste, dopo la raccolta, attraverso la questua, del frumento con il quale si impasterà il pane di San Nicola, le piccole pagnotte verranno portate al forno dalle donne su lunghe tavole in equilibrio sulla loro testa.
Il 6 dicembre, dopo la funzione religiosa, c’è la processione con il busto del santo; nel pomeriggio, il rintocco della campana della chiesa principale dedicata proprio al santo, il cui suono scongiura le tempeste, si accenderanno le pire sotto sette, o nove, grossi calderoni contenenti le fave e il paiolo che bollirà per primo farà vincere il suo proprietario. Una volta cotte le fave verranno distribuite insieme ai pani che portano l’effige del santo e che verranno consumati per devozione e tradizione, insieme al vino.
Questo rito potrebbe essere un antico retaggio delle feste celebrate in onore del divinità celtica della fertilità Dagda. Secondo alcune leggende egli era il marito di Brigid o di una dea con tre nomi: Menzogna, Astuzia e Disgrazia. Egli possedeva un calderone prodigioso con il quale nutriva tutta la Terra non solo in senso materiale ma anche in quello spirituale e culturale, per questo era chiamato anche Signore del Grande Sapere. Il suo calderone, secondo alcune leggende, fu poi smembrato in 7 coppe più piccole.
Come si è visto i calderoni sono sette, questo numero, però non è citato a caso poiché esso è… magico per antonomasia, in quanto risulta dall’unione del 3, che rappresenta la molteplicità, e del 4, che rappresenta la globalità. Questa cifra ha una rilevante importanza, perché è associata alla creazione divina del mondo; Dio, infatti, creò il mondo in sette giorni! Esso è anche una dimensione spazio-temporale sacra per antonomasia.
Il numero sette è associato ai pianeti, ai metalli, ai nani della famosa fiaba di Biancaneve, 47 erano le persone partite alla volta dell’ignoto per salvare le sacre spoglie di San Nicola; gli dei dell’antico Egitto erano divisi in gruppi di sette, gli unguenti sacri erano 7, i nodi magici usati per far passare il mal di capo erano sempre… 7, le anime di Ra erano sette etc.
L’energia del Cosmo è costituita dalla dinamicità del triangolo e la fissità del quadrato, poiché la combinazione di queste due figure geometriche, riportano, sempre, al numero sette. Presso gli ebrei dire “sette volte sette” o l’elevazione a potenza di questa cifra indica un numero infinito di volte.
Le fave simboleggiano, in alchimia, il sale minerale ed evocano lo zolfo rinchiuso negli elementi.
Questo legume è usato presso alcuni popoli, come dolce tipico dell’Epifania, sostituito, a volte da un piccolo pesce, simbolo, presso le prime comunità cristiane, del divino.
Esse sono il pasto per eccellenza della tradizione contadina, molto costumato durante i lavori nei campi e come buon auspicio per i matrimoni; in quanto rappresentano la prole maschile che verrà; in Italia, infatti, simboleggiano l’organo sessuale maschile.
Gli antichi, usavano questo legume durante le cerimonie funebri, in quanto esse contenevano l’anima dei trapassati.
Le fave appartengono a quei sortilegi definiti “protettori”, in quanto rappresentano la morte e la vita, intesa come prosperità. Durante i riti della Primavera, dedicati alla Magna Mater, esse sono il primo dono di questa divinità, nonché, la prima offerta dei morti ai vivi, oltre che il segno della loro rinascita attraverso la reincarnazione.
In molti riti orfici e pitagorici, si evitava di mangiare fave perché equivaleva a nutrirsi della testa dei propri avi. Mangiare i defunti sotto forma di fave era come entrare a far parte del ciclo della reincarnazione, nonché sottomettersi agli enormi poteri della materia.
Durante i riti della Primavera, era attraverso di esse che ci si metteva in contatto con il mondo invisibile, imperscrutabile, dell’oltretomba.
Presso i greci questi legumi venivano sia mangiati che usati come palline per votare i magistrati.
Nelle società rurali abruzzesi, le fave, erano molto diffuse, in quanto rappresentavano il primo e desiderato raccolto della nuova annata agricola, opportuno per superare l’esaurimento delle derrate alimentari dell’anno precedente e nell’attesa di quelle nuove che non erano ancora pronte. Questo periodo era chiamato la “Costa di Maggio” o di “Giugno”, particolarmente sentito nelle aree rurali di montagna.
San Nicola è inoltre invocato a Pollutri per far addormentare i bambini affinché, con il suo tocco lieve, abbassi loro le palpebre permettendogli come Morfeo, divinità del mondo antico protettore dei sogni che appariva sotto forma di persona conosciuta al dormiente, un dolce e tranquillo riposo!
L’etimo del nome Nicola deriva dall’unione di due parole greche “Nike” e “Laos”, cioè “Vincitore del Popolo”. Per gli antichi, infatti, la “Vittoria” era personificata dalla “Nike”. Questa divinità era l’immagine del potere invincibile di Zeus e di Pallade Atena, il più importante nume dopo il padre di tutti gli dei, Zeus. Atena era venerata anche con il nome di Atene Nike ed essa non era alata poiché, essendo l’alter ego della divinità, non si poteva staccare da essa.
Atena era, secondo la mitologia classica, la personificazione della sapienza, dell’agilità e della guerra. Era la regina del cielo e una delle dodici divinità più importanti dell’Olimpo, nonché una delle tante facce della Grande Madre e del suo archetipo la Dea Bianca, cioè la Luna.
Atena venne fuori dalla testa di Zeus, quando questi mangiò la sua prima moglie Meti, poiché era incinta.
Il padre degli dei temeva, infatti, che il nascituro fosse superiore a lui e in qualche modo ne usurpasse il potere, e così appena dopo essersi nutrito della consorte, gli scoppiò un forte mal di capo: allora, Efesto con una grossa ascia gli assestò un colpo, la testa del padre degli dei si aprì, e… come per incanto vi emerse una giovane donna bellissima vestita con una lucente armatura.
Questa dea aveva dato agli uomini l’olivo e aveva inventato l’aratro e il suo uso; per questo motivo essa era venerata anche come protettrice dell’agricoltura.
Per propiziarsi una buona semina e quindi un buon raccolto, ben due dei tre rituali sacri erano dedicati ad essa, come le feste in suo onore, le cosiddette Panatenee, che in principio erano semplici rituali della mietitura.
La sua immagine iconografica è quella di una donna nel vigore della giovinezza con uno scudo e una lancia. I suoi animali totemici erano: il gallo, la civetta, la cornacchia e il serpente; la sua pianta sacra era l’olivo; presso i romani venne chiamata Minerva.
Tra i suoi appellativi vi erano anche quello della già citata Nike come vittoria, per il suo tempio che dominava l’Acropoli.
Con il passare del tempo la Nike, divenne il simbolo di eventi lieti, prosperi, vittoriosi, nonché di competizioni sportive e avvenimenti musicali che coinvolgevano in generale il popolo.
Presso i Sabini essa veniva chiamata Vacuna, che era anche protettrice dell’agricoltura e del desiderio carnale, inteso come piacere.
Nell’aquilano presso uno dei ruderi di un tempio dedicato a questa divinità, che il sincretismo cristiano ha trasformato in Santa Maria della Neve, venivano celebrati, agli inizi di agosto, dei singolari riti propiziatori.
Essi consistevano nel tracciare un solco con l’aratro, il più diritto possibile, e questo solco attraversava tutti i campi fino al sagrato della chiesa di Santa Maria della Neve. Il giorno successivo una mucca veniva fatta genuflettere sulla porta della chiesa, dopodiché un ragazzo scelto tra le migliori famiglie della zona le montava in groppa e si allontanava dal paese per tornarvi più tardi dopo che alcune persone avevano ammonticchiato dei covoni di grano. Egli dopo essersi seduto su di essi distribuiva delle ciambelle a tutti i partecipanti alle feste che culminavano con musica, canti e danze.
I romani la chiamarono Dea Victoria ed era rappresentata, come la sua antesignana Nike, con le ali e un ramo di palma e una corona di alloro, ed era una divinità celeste minore.
Già dall’etimo del nome si evince che questo Santo, abbia a che fare con l’abbondanza e la prosperità e sia uno delle tante figure pagane che la “trasmutazione” cristiana ha beatificato.
Nicola pare sia nato a Patara in Turchia, o più in generale, in quella “regione” che durante l’Evo Medio era definita come “Saracinia” cioè terra dei Saraceni o Mori, comunque dei pagani. Egli nacque verso la fine del 200 d.C. da una famiglia cristiana agiata.
Tra le tante leggende che aleggiano intorno a questa figura, si narra che appena nato si sollevò, con le mani giunte, dal catino nel quale lo stavano lavando, ringraziando il Signore di essere nato; egli si nutriva solo i mercoledì e venerdì, giorni con particolari influssi negativi, secondo la tradizione popolare.
Mercoledì, dal latino “dies mercuri”, cioè giorno di Mercurio, deriverebbe dal nome della divinità tedesca Odino, padre di tutti gli dei, marito di Frigga o Feya e padre di Thor. Nelle società contadine il mercoledì era considerato il giorno dedicato alla Madonna del Carmelo o del Carmine; infatti, per loro, questo giorno veniva chiamato semplicemente il “Carmine”.
Venerdì dal latino “dies veneris”, cioè giorno di Venere, dea della bellezza nonché uno delle tante facce della Grande Dea Madre, divinità universale che si scindeva presso i vari popoli, religioni e società in diversi numi come ad esempio la tedesca Freya, che per i popoli teutonici era la dea della fertilità, signora e padrona della giovinezza, della bellezza, dell’amore sia platonico che passionale e ovviamente di tutto ciò che era associato ad esso.
Questa divinità bellissima, moglie di Odur, in alcune versioni del mito consorte di Od e in altre addirittura compagna del potente Odino, figlia di Njordhr, sorella di Freyr e madre di Hnossa, era una delle più potenti divinità dei Vani nonché figlia del protettore dei naviganti, veniva raffigurato come un guerriero selvaggio e crudele.
Essa conosceva anche l’arte della divinazione che mise al servizio di Odino quando questi perse l’uso della vista; essa divenne, così, potente da indossare il mantello del destino, decretando la vita e la morte degli uomini, esigendo, inoltre, il tributo di metà dei guerrieri periti in battaglia. Il giorno consacratole era il venerdì da cui prende anche il nome, i suoi animali sacri erano i gatti, i falchi, le farfalle, il cuculo e i cavalli.
Con l’avvento del cristianesimo, si cercò di sradicare questo culto pagano demonizzandolo e così il venerdì divenne un giorno infausto, i gatti alati che trainavano il suo cocchio si mutavano in streghe dopo sette anni e infine i cavalli neri divennero i messaggeri degli inferi. Inoltre questo già nefasto giorno divenne addirittura sfortunato per tutti i tipi di lavoro da quando il 13 ottobre 1307, che cadeva di venerdì, Filippo IV detto il Bello emise un mandato di cattura contro tutti i templari che si trovavano sul suolo francese.
Appena emesso l’ordine di cattura, alcuni templari presero il mare, dal porto de la Rochelle, e solo coloro che riuscirono a imbarcarsi nella confusione seguita agli arresti poté salvarsi, da allora in memoria di questo massacro perpetrato ai danni di innocenti, questo giorno ha preso una valenza malefica.
Per tornare al personaggio storico, o perlomeno a quello che si sa di San Nicola come persona realmente vissuta, si dice che egli presenziò, forse, con la carica di diacono, al concilio di Nicea, dove, tra le tante cose, si confermò la natura divina del Cristo, per poi recarsi a Roma, ove, per volere di Papa Silvestro, divenne vescovo di Myra in Lycia, provincia dell’Asia Minore e fu grazie al suo apostolato che questa terra venne risparmiata dalle eresie.
Rimasto orfano in giovane età, fu perseguitato e torturato per le sua ideologia religiosa, finché l’Editto di Costantino non pose fine alle persecuzioni cristiane.
Nicola di Patara morì intorno nel 350 a.C. a 82 anni; egli fu un forte, deciso, zelante cristiano che operò molti miracoli.
Una delle sue prime biografie fu redatta nel 740 da Sant’Andrea di Creta. La venerazione del Beato giunse in Occidente dopo che l’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico (680 – 741) proibì il culto delle sacre rappresentazioni, mettendo al bando tutto ciò che le riproduceva.
Molti religiosi per perpetrare questa tradizione, fuggirono in Occidente portandosi dietro le loro usanze, compreso il culto di San Nicola.
Le spoglie mortali di Nicola furono sepolte in una chiesa di Myra vicino Patara che fu sconsacrato e così si perse la memoria dell’edificio insieme a ciò che conteneva.
Passarono i secoli e questa terra fu conquistata dai Selgiunchi che, nutrendo una profonda avversione per i cristiani, impedivano ai pellegrini di raggiungere la Terra Santa assalendoli e depredandoli. Probabilmente fu questo uno dei tanti motivi per cui si promossero le Crociate.
Nel 1086 un vescovo ebbe un sogno premonitore nel quale il Santo di Bari gli imponeva di andare a recuperare le sue spogli mortali in Terra Saracinia. L’anno successivo tre caravelle con 47 baresi, tra i quali vi erano sacerdoti, mercanti e soldati, partirono verso l’ignoto per recuperare i sacri resti del Vescovo di Myra.
Questa chiesa, secondo la leggenda, era accudita da monaci, cosa alquanto improbabile, poiché essa era sconsacrata ed era in territorio pagano. Quando i baresi giunsero in questo luogo, prima dei veneziani, anche loro interessati alla sacre ossa, si trovarono di fronte un sarcofago bianco con dentro i resti del Santo immerso in un liquido trasparente, la cosiddetta manna, che inondava la stanza con un odore paradisiaco. Dopo aver preso le spoglie e averle poste in un barile, essi partirono alla volta di Bari. Durante il viaggio si scatenò una tremenda tempesta che fece temere più volte per l’incolumità dei marinai i quali furono salvati dal Santo che fece cessare la procella.
Il 9 maggio del 1089 il corpo di Nicola giunse a Bari dove guarì circa 47 malati terminali; in quell’anno si iniziò la costruzione di un tempio dedicato al Santo e nel frattempo le spoglie furono poste nella Cattedrale pugliese. Durante lo scavo delle fondamenta dell’edificio alcuni muratori furono coinvolti in un mortale incidente, ma la loro grande fede e l’ulteriore miracolo operato dal Santo li salvò. Era il 1097 quando la nuova sede del corpo mortale di Nicola fu terminato, siccome mancava un pilastro, esso arrivò fortunosamente galleggiando per mare, dalla terra natale del Beato.
In seguito alla riforma, i protestanti abolirono la festività in onore del Santo, anche se i coloni olandesi continuarono, a New Amsterdam, a venerarlo e quando questa città passò sotto il controllo inglese e fu ribattezzata con il nome di New York, il venerabile divenne Sinter Klaas: un misto tra l’iconografica classica del beato e il dio teutonico Thor e la sua festa fu spostata al 25 dicembre. La festa del santo fu soppressa dalla chiesa nel 1969.
Secondo quando afferma Laurence Gardner, la figura di Babbo Natale ha radici pagane: “Prendendo in esame il personaggio di Babbo o Papà Natale, assodato trattasi di una figura in intima connessione con mondo degli Elfi… La figura di Babbo Natale (con il caratteristico copricapo intrecciato di agrifoglio) altro non può essere che la rappresentazione schietta e diretta del natalizio Re dell’Agrifoglio, chiamato anche Papà Inverno e Nonno Gelo.
La leggenda sostiene anche che Nicola possedesse il potere di calmare il mare in tempesta; mentre la storia che lo collega ai bambini si riferisce al miracolo di aver ridato vita a tre giovani che erano smembrati e tenuti sotto conserva da terribili, quanto improbabili, genitori cannibali!
Nicola divenne in breve uno dei più potenti santi protettori. In particolare in Grecia, Apuglia, Sicilia, Lorena e Russia… Prendendo spunto dall’episodio dei tre sacchetti colmi di monete d’oro, nei Paesi Bassi prese a diffondersi la leggenda che San Nicola avrebbe fatto ritorno sulla Terra ogni anno per continuare a beneficiare l’umanità con i suoi preziosi doni premiando i bambini buoni la vigilia del 6 dicembre, giorno della sua festa patronale.
In realtà Santa Claus scaturì da un personaggio fiabesco introdotto nella tradizione nordamericana dai coloni tedeschi: il nome del personaggio era Pelznichol (che significa Nicola Impellicciato), a volte chiamato Vecchio Nick. Si trattava di una sorta di folletto dispettoso… riportando alla mente una figura eroica come quella dell’antico eroe mesopotamico Enkidu descritto nell’epopea di Gilgamesh.
Pelznichol era un tipo strano e selvatico, famoso per i suoi tiri mancini e gli scherzi che amava giocare alla gente almeno una volta all’anno, tradizione poi trasformatasi in quella del dono natalizio…
Il Vecchio Nick era invece molto più vicino alle connotazioni imposte da Papa Gregorio I all’immagine del diavolo, tratta in modo pressoché completo da quelle dei tempi medioevali degli angeli caduti, a tal punto che nel mondo anglosassone sovente era (ed è) proprio il diavolo a essere chiamato Vecchio Nick…”. (7)
Babbo Natale è diventato nel tempo però l’emblema natalizio più amato dai bambini, perché dispensatore di doni. Egli arriva di notte su una slitta d’oro carica di doni trainata da delle renne che sfrecciano nel cielo buio della fredda notte di Natale. Esse si fermano sul tetto e Babbo Natale, calandosi dal cammino, deposita i doni sotto l’abete natalizio.
Ha una lunga barba bianca ed è corpulento, indossa un costume rosso, che inizialmente era verde, ma poi per ragioni d’immagine si è preferito il look attuale, ed ha un viso allegro e vivace.
Vive in una casa in Lapponia o Finlandia e i suoi aiutanti sono gli gnomi e i folletti e tanti animaletti che collaborano nel trovare e incartare i regali che i bambini, e non solo, di tutto il mondo gli richiedono. L’immagini classica di questo personaggio tipicamente nordico, risponde più o meno a quella descritta poc’anzi; ma in realtà questa figura del “dispensatore di regali” è modellata sull’archetipo di San Nicola.
Santa Claus è, infatti, la distorsione del nome San Nicola, che gli emigrati olandesi chiamavano “Sinte Niklaas” e gli anglosassoni trasformarono in “Santa Claus”, al quale nel 1863 il disegnatore Thomas Nast diede l’aspetto definitivo che abbiamo ancora oggi. Egli ha in comune con il Santo a cui si è ispirato solo la barba bianca e il fatto di essere entrambi dispensatori di regali.
Come si è affermato poc’anzi, i coloni olandesi trapiantati nel “Nuovo Mondo” distorsero sia il nome di San Nicola che la sua immagine iconografica classica, facendone un misto fra un santo cristiano e il dio pagano Thor.
Il dio Thor, il cui etimo significa “Tonante”, per i teutonici era una divinità celeste, figlio di Odino e della dea Terra, Jordh, nonché marito di Sif e signore dei tuoni e fulmini, oltre che della tempesta.
Egli era signore e padrone di un regno chiamato Thrudvangnel nel quale sorgeva un enorme castello di oltre 500 camere, conosciuto come il “Castello del Fulmine”; egli si muoveva su un carro trainato da capre, che durante il Medioevo diventarono sinonimo del diavolo.
Secondo la tradizione classica, infatti, le capre erano gli animali totemici di Era, consorte di Zeus. Questo animale era anche la personificazione della dea, che veniva però trafitto da lance durante le feste a lei dedicate, poiché esso aveva svelato a Zeus il nascondiglio di Era, quando questa cercava di sottrarsi alle ire del suo divin consorte.
Zeus, invece, aveva trasformato suo figlio Dionisio, nato da una relazione con Semele, in un capro nero per salvarlo dalle grinfie di sua moglie Era; per questo motivo gli adepti al culto di Dionisio, squartavano un capro selvatico per cibarsene.
Molte divinità silvane venivano identificati con questo animale, quindi, diventa ovvio la loro demonizzazione da parte della cristianità, poiché essi rappresentavano un retaggio di antichi culti dedicati alla natura.
Il simbolo che contraddistingue Thor è il martello forgiato dal nano Sidri che aveva la particolarità di tornare come un boomerang sempre nelle mani del suo padrone. Mentre il nano stava costruendo questo oggetto, venne infastidito da Locki, una divinità malefica e dispettosa che veniva chiamata anche “L’Ingannatore” per la sua propensione a fare scherzi dannosi, che trasformatosi in mosca si divertì a infastidire Sidri che, a causa di questa interferenza, costruì il martello con il manico troppo corto!
Questa potente arma poteva uccide, ma poteva dare anche la vita, poiché questo nume usava la sua arma per benedire le unioni di giovedì, giorno a lui dedicato; infatti giovedì in inglese si dice Thursday che non è altro che la corruzione delle parole Thor’s day, cioè il giorno di Thor.
Egli possedeva una forza straordinaria che gli perveniva da una cinta magica, la quale gli raddoppiava il vigore. Il suo culto rimase vivo per tutto il Medioevo, finché il re Olaf II lo sradicò anche con l’uso della forza, convertendo i suoi sudditi al cristianesimo.
San Nicola rappresenta, come d’altronde Merlino, il punto di unione spirituale tra cristianesimo orientale e occidentale; poiché il suo culto dall’Italia si espanse in altri paesi come Gran Bretagna, Belgio, Olanda, anche la chiesa ortodossa nutre tutt’ora un grande rispetto e devozione per lui al punto che è anche divenuto il Patrono della Russia e della Grecia.
Sono fiorite molte leggende sulla larghezza di mezzi di San Nicola e perciò si è ipotizzato che egli fosse il possessore del Santo Graal o che addirittura egli fosse il Graal stesso: poiché non conosciamo la reale forma dell’oggetto in questione tutte le ipotesi possono essere giuste.
In alcune fiabe si narra che il Santo Graal fu donato a Nicola da Gesù stesso sotto forma di bambino e forse questa fu una delle ragioni per cui le sue spoglie mortali furono all’origine di dispute accese tra molti potenti, tra cui anche il Papa, che allestì una spedizione per ritrovarle in una misera chiesetta sconsacrata nella terra degli infedeli.
Si racconta che tanti e tanti secoli fa in una delle tante città del mondo allora conosciuto, vivesse un nobile che a causa di speculazioni sbagliate avesse perso tutti i suoi averi. Quest’uomo aveva anche tre figlie da marito, ma dato che non aveva niente non le poteva neanche maritare, e così queste erano destinate a diventare donne di malaffare. Questa famigliola era comunque molto religiosa e pia e non passava giorno che essi non pregassero San Nicola. Il beato, commosso da tanta fedeltà nei suoi confronti, decise di intervenire e lo fece alla sua maniera: per due notti di seguito il Santo buttò delle monete d’oro attraverso la finestra della casa del pover’uomo; ma la terza sera Nicola, trovò le finestre sbarrate; così salito sul tetto lanciò le monete attraverso in cammino e queste finirono nelle calze delle giovani donne, appese lì ad asciugarsi. Così le ragazze poterono sposarsi e il Santo diventò protettore, anche delle fanciulle da marito.
Nicoletta Camilla Travaglini
NOTE
(1) Chevalier, Jean; Gheerbrandt, Alain; “Dizionario dei Simboli”, Biblioteca Universale Rizzoli, quarta edizione, luglio 2001 pagg. 314, 323.
(2) Rangoni, Laura: “Le Fate”, Xenia Edizioni, 2004, pag. 9, 25, 61, 62.
(3) Cardini, Franco; Introvigne, Massimo; Montesano, Marina: “Il Santo Graal”, Giunti Editori, marzo 2006, pagg. 45, 46, 47, 48.
(4) Baigenet, Michael; Leigh, Richard; Lincoln, Henry: “The Holy Blood and Holy Graal”, Arnaldo Mondadori Editore, 2003, pagg. 388, 389 e seguenti.
(5) Cardini, Franco; Introvigne, Massimo; Montesano, Marina: op. cit., pagg. 55, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70.
(6) Cardini, Franco; Introvigne, Massimo; Montesano, Marina: op. cit., pagg. 15, 16, 25, 26, 27, 28, 39.
(7) Gardner, Laurence: “Il regno dei Signori degli Anelli – Mito e magia del Santo Graal”; Newton & Compton Editori, 2001, pagg. 174-179.