LA MOSTRA “FAVOLOSO CALVINO” ALLE SCUDERIE DEL QUIRINALE

Nell’ambito delle celebrazioni della nascita di Italo Calvino (1923 – 1985), le Scuderie del Quirinale a Roma presentano la mostra “Favoloso Calvino”, che resterà aperta sino al 4 febbraio 2024, per la cura di Mario Barenghi, docente di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università di Milano Bicocca, e noto studioso calviniano: sua è la curatela dei Meridiani della Mondadori dedicati proprio allo scrittore ligure. Il titolo della esposizione riprende quello di un articolo dell’americano Gore Vidal (Fabulous Calvino), apparso nel numero del New York Review of Books il 30 maggio 1974, a breve distanza dalla uscita de “Le città invisibili” (1972) nella traduzione di William Weaver, momento decisivo per la ricezione e l’apprezzamento di Calvino negli Stati Uniti.

La mostra, che si articola principalmente in un percorso cronologico-tematico, mira a illustrare i caratteri e la evoluzione dell’immaginario di Calvino dagli anni della sua formazione a quelli della maturità artistica, non tralasciando di menzionare i numerosi progetti che egli non riuscì a completare, visto che l’opus di questo autore fu non solo qualitativamente ricchissimo, ma parimenti quantitativamente vasto, una “fabbrica di idee” alla quale lui stesso non riuscì sempre a stare dietro.

Nella prima sezione della mostra si fronteggiano da un lato testi e materiali che documentano l’attività dei genitori di Calvino nei campi della Botanica, della Floricoltura e dell’Agronomia; dall’altro riferimenti al cinema degli anni ’30, oggetto di culto da parte del giovane Italo. Si passa abbastanza rapidamente a raccontare la sua partecipazione alla Resistenza e la scelta della militanza politica con la iscrizione al PCI.

Arrivando alla seconda metà degli anni ’40, Calvino si convince che la sua vita dovesse essere completamente consacrata alla Letteratura,  cominciando a pubblicare diversi racconti e articoli, cosa che gli permetterà di entrare nell’orbita della casa editrice Einaudi, episodio assolutamente nodale per la sua intera carriera, di cui sarà per decenni una delle colonne portanti. È da questo momento in poi che la figura di Calvino inizia a imporsi e a guadagnare fama, come dimostrano i ben otto ritratti che Carlo Levi (1902 – 1975) gli dedica. A tal proposito, ogni ambiente della mostra cerca di mettere in dialogo del materiale inerente allo scrittore sanremese con delle opere d’arte a lui rivolte. La operazione funziona quando, come per il poc’anzi citato Levi, queste testimonianze hanno un valore storico-documentale, mentre per quanto concerne quelle prodotte in anni recenti o addirittura per le stesse celebrazioni del centenario dalla sua nascita, l’esito risulta scarsamente convincente e filologicamente disarmonico. Purtroppo, la tendenza contemporanea è quella di voler aggiungere sempre un di più per raccontare un personaggio importante, smarrendo spesso il necessario focus su quello che è il tema principale su cui si basa quella determinata rassegna culturale. Pertanto, anche in qualità di studiosi di Calvino, in questo scritto ci limiteremo tendenzialmente ad analizzare ciò che nella mostra riguarda strettamente questo particolare e talentuoso narratore, nonché intellettuale attento e originale, come viene illustrato nella quinta sezione, ove si affronta uno degli aspetti cruciali nella costruzione del Calvino scrittore, e sul quale sovente gli specialisti non si trovano in perfetta sintonia; ovvero, una oscillazione nella sua produzione letteraria fra istanze realistiche e altre fantastiche o fiabesche. Ecco, dal canto nostro riteniamo che la sua fase “realista”, rappresentata soprattutto da “Il sentiero dei nidi di ragno” (1947), romanzo di esordio e che lo introdusse nel panorama letterario nazionale, è stata per Calvino un passaggio dovuto per essere “accettato”, quale autore impegnato, dalla intellighenzia dell’epoca, anche se la sua vera cifra era, ed è rimasta, quella del Fantastico.

Dal Realismo al Fantastico, passando per la fiaba

Difatti, non è un azzardo sostenere come egli entri quasi subito in un conflitto creativo con la aristotelica “mimesi”. Questa sua posizione avrebbe potuto procurargli parecchi problemi, venendo giudicato quale un “escapista”, se non avesse avuto come mentori e protettori Cesare Pavese (1908 – 1950) e, specialmente, la Einaudi, nella figura di Elio Vittorini (1908 – 1966). Non è un caso, quindi, che dal 1952 al 1958, Calvino troverà la propria svolta con “I nostri antenati”: trilogia che col realismo ha poco a che fare. Non dimentichiamo poi la sua uscita dal Partito Comunista in seguito alla repressione da parte delle truppe sovietiche della Rivoluzione Ungherese del ’56. La via verso il disimpegno per lui era oramai segnata – per fortuna aggiungiamo noi – regalando alla Letteratura Italiana uno dei massimi scrittori a livello mondiale del XX secolo; un penna unica e peculiare, dotata di uno stile difficilmente imitabile, con una struttura apparentemente essenziale, nella quale si nascondono però miriadi di significati, sottotesti, riflessioni acutissime. In tal senso, sorprende l’amore di Calvino per un autore così meravigliosamente complesso nella forma come Joseph Conrad (1857 – 1924), su di lui scriverà la sua tesi di laurea. Tuttavia, al di là della passione che li accomunava per una resa fortemente visiva della scrittura, Conrad e Calvino si rivelano quasi agli antipodi. Il primo, un narratore per certi versi barocco, incline alla allegoria e a una continua dissertazione sulla oscurità che attanaglia l’animo umano; il secondo, uno che non ama esprimersi con periodi lunghi e totalmente alieno dal mischiarsi in questioni esistenzialiste. Insomma, se per Conrad la scrittura è un potente mezzo per comunicare concetti universali sullo stato precario del vivere; in Calvino lo scrivere è una procedura nettamente autonoma dal mondo circostante.

Invero, e come si evince dalla sesta sezione, il nostro autore cerca il reale nella immaginazione, specie in quella popolare. Da qui, nacque il suo interesse per la fiaba e la Demologia (lo studio della cultura popolare, equivalente italiano della parola inglese folklore). Col volume da lui curato dal titolo “Fiabe italiane” (1956), egli mise assieme le principali storie fiabesche del Paese, analizzandole in seguito in forma critica in vari scritti usciti nel corso degli anni, riuniti nel prezioso saggio postumo “Sulla fiaba” (1988). L’amore di Calvino per la fiaba è, comunque, più antico, considerato che il suo primo intervento in materia risale al 1949. “Fiabe italiane” si collocava nel vasto ambito degli studi etnografici, con l’intento di rispondere a una precisa esigenza editoriale, nel pubblicare, accanto ai grandi libri di fiabe straniere, una raccolta totalmente italiana. La Einaudi aveva già iniziato a stampare le strenne dei Fratelli Grimm, di Hans Christian Andersen, di Charles Perrault (“Contes de ma mère l’Oye”/“I racconti di Mamma Oca”, 1697), di Aleksandr Afanasjev ed altri.

Pavese nella recensione del “Sentiero dei nidi di ragno”, comparsa sulla Unità il 26 settembre 1947, parlò di “una favola di bosco, clamorosa, variopinta, diversa”, mentre Vittorini definì “Il visconte dimezzato” (1952) “una fiaba a carica realistica” o un esempio di “realismo a carica fiabesca”. Per Calvino quel “c’era una volta” non ammette di essere situato nel tempo e nello spazio, “assenza” che si ritrova in modo puntuale nella sua produzione. Le fiabe contengono una spiegazione generale del mondo, dove è incluso tutto il Male e tutto il Bene e, contemporaneamente, tali racconti altamente allegorici alimentano la memoria, anzi, ne sono un punto recondito. In sintesi, la fiaba come destino, espresso in una forma di narrazione molteplice, con storie combinatorie; lezione che lo scrittore sanremese riprenderà ne “Il castello dei destini incrociati” (1969).

La sua era la ricerca, impossibile, di una “archifiaba”, una soluzione finale a “La sfida al labirinto” (1962); dilemma intellettuale che lo avvicinava a Jorge Luis Borges (1899 – 1986). È comunque utile ricordare che nei due romanzieri vi era una sostanziale differenza nell’intendere questo dedalo giunto sino a noi dalla Classicità. Infatti, se per l’argentino esso incarna una sorta di processo di affinamento etico; per Calvino è, al contrario, una antinomia irrisolvibile nella soluzione di quella “geometria narrativa” che è la quintessenza del suo stile. Nondimeno, quello che sopra ogni altra cosa lo attirava della fiaba, nella quale si alternano regole prefissate a ripetute variabili, era la libertà concettuale di un “gioco” continuo tra chi narra e chi ascolta/legge.

In tal senso, la sezione seguente risulta coerente nell’approfondire l’esperienza dei racconti cosmicomici (1964 – 1965), e più in generale l’interesse di Calvino per l’Astronomia e la Cartografia: qui sono esposte la mappa lunare di Gian Domenico Cassini e la rappresentazione del Mediterraneo del trecentista Opicino de Canistris, di cui si parla in “Collezione di sabbia” (1984), apice di quella saggistica calviniana che, durante uno nostro periodo di ricerca universitaria in Inghilterra anni or sono, abbiamo definito: narrative essay writing, giacché anche quando veste i panni del critico forbito, con argute e dotte considerazioni formulate nei suoi tanti e bellissimi saggi brevi, egli non abbandona mai il suo essere prima di tutto un romanziere.

L’occhio calviniano

Non potevano poi certo mancare dei riferimenti a “Le città invisibili” – libro tra i più apprezzati dal vasto pubblico dei lettori comuni – cuore della sezione 9, dove campeggia un’opera di Fausto Melotti, al quale Calvino dichiara esplicitamente di essersi ispirato per la serie delle “città sottili”. Ma qui trovano pure spazio gli impareggiabili contesti urbani di De Chirico, altro artista amato dalla scrittore ligure. Gli anni ’70 rappresentano un punto di svolta in Calvino, col lento, seppur progressivo, abbandono di sperimentalismi letterari arditi, frutto del suo attivismo parigino nell’OuLiPo (acronimo francese di “Ouvroir de Littérature Potentielle”, ossia “Officina di Letteratura Potenziale”), spostandosi con sempre maggior convinzione ed entusiasmo nella descrizione; impegno che culmina in “Palomar” (1983), epitome dell’occhio calviniano, con la decisione irrevocabile di astenersi da qualsivoglia giudizio o opinione, preferendo narrare il contesto che si presenta davanti allo sguardo. In effetti, l’azione del guardare è alla fine il filo conduttore di tutta la mostra: apprendere a osservare con occhi neutri e sempre diversi era per Calvino il presupposto per cambiare il mondo – o quanto meno, per preservare parzialmente la capacità di farlo. Nell’ipotizzare lo spazio inteso come estensione e declinazione del visibile, luogo assolutamente reale e percepibile, non importa se contesto cittadino oppure ambientale, Calvino riesce nell’impresa di evocarlo nella mente, personalizzandolo senza però mai snaturarlo. Ragion per cui, tutto può essere spazio/luogo in noi: quello siderale, terrestre, come parimenti quello di un quadro o di un reperto archeologico. Osservandolo, esso si rigenera nei nostri occhi, non tradendo in alcun momento la sua identità originaria. Basterebbe questo per far comprendere una volta per tutte che, malgrado scriva in modo abbastanza diretto e non eccessivamente sofisticato, Calvino è un autore difficile, poiché richiede la costante attenzione del ragionamento, procedendo spesso per opposizioni binarie; da qui la sua ammirazione per il celeberrimo linguista francese Roland Barthes (1915 – 1980).

La propensione in Calvino per una dimensione visuale si esplicò su più versanti. Nel costante impegno a rendere concrete e percepibili le intuizioni mentali, egli fa ricorso alla accurata descrizione di fatti e fenomeni che si palesano innanzi gli occhi. Ciononostante, negli anni il modo di guardare di Calvino è sensibilmente cambiato: se nella sua produzione giovanile si riconosceva l’occhio dell’esploratore curioso, man mano che passa il tempo prevale in lui lo spirito del cartografo e del collezionista. Al binocolo o al mirino (anche fotografico) subentrano nuovi dispositivi ottici, altre lenti: il microscopio, il telescopio. Del resto, a un telescopio californiano deve il suo nome il personaggio del signor Palomar, un sorta di suo alter ego sia nella esperienza quotidiana, sia nei viaggi in Paesi lontani (Giappone, Messico e Iran).

Una nota necessaria, ci auguriamo non polemica, sentiamo di doverla rivolgere al rapporto tra Calvino e la politica. È risaputo come costui decise da giovane di aderire al PCI. Eppure, tale decisione non fu mossa, come una certa vulgata tende a sostenere, da questioni dottrinali, come egli stesso ebbe per l’appunto modo di chiarire: “La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una ‘tabula rasa’ e perciò mi ero definito anarchico […]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata” (Autobiografia politica giovanile. I. Un’infanzia sotto il fascismo, in Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994, pp. 149-166). D’altronde, e come detto, Calvino lascerà il Partito dopo l’invasione dell’Ungheria del 1956 e per tutti gli anni ’50 coltiverà il progetto di scrivere un grande romanzo realista che riveli le contraddizioni della società italiana di allora, con la sua modernità urbana e industriale, senza però riuscirci, con risultati inferiori alle sue aspettative, a dimostrazione che quella, e differentemente dalle opinioni di alcuni esperti, non era la sua strada, la quale, per converso, si venne manifestando nella forma di una ispirazione diversa, tra l’avventuroso e il fiabesco, facendone un gigante della Letteratura del secolo scorso. Egli ben comprese come lo spazio della esperienza tangibile appaia insidiosamente opaco: lo si può solo percorrere di scorcio, narrando vicende specifiche, quasi minute – senza pretese di una ambiziosa totalità – combinando racconto e riflessione saggistica.

Il sistema-Calvino

Concludendo, la mostra in questione, malgrado talora con un allestimento un po’ confuso, si offre, segnatamente allo specialista di Calvino, quale un tuffo nella immaginazione di questo scrittore e intellettuale, benché lui a tale definizione prediligesse “uomo di coscienza”, maturata nella sua “ossessione per la struttura”, alla ricerca dell’intreccio/processo combinatorio (“Il castello dei destini incrociati” e “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, 1979). Esiste un sistema-Calvino, sorprendente e stimolante, che è maggiore della somma dei suoi libri. Per questa ragione è indispensabile munirsi di cartine e mappe, tutte rigorosamente mentali, e inseguire la complessità che egli ha inteso celare sotto una forma espressiva solo apparentemente essenziale. “La sfida al labirinto” non è, dunque, la problematica insita nell’enigma letterario, ma il riuscire a cogliere le tracce di quegli interstizi dentro i quali è celato il vero pensiero di Italo Calvino.

Riccardo Rosati

(Prima pubblicazione su Barbadillo.it; per gentile concessione dell’autore)