Demoni femminili, descritti in maniera differente dai poeti greci dell’antichità, le arpie sono dette – a seconda del mito – figlie di Taumante (divinità marina primordiale) e di Elettra (figlia di Agamennone e Clitennestra) o di Tifone (conosciuto anche con il nome di Tifeo, figlio minore di Gaia e Tartaro) ed Echidna (una creatura mostruosa il cui corpo di donna terminava con una coda di serpente).
Omero nell’Odissea (XX, 99-100) le descrive come venti precorritori di tempeste marine.
Esiodo nella sua Teogonia le tratteggia come divinità alate, dalla chioma lunga e sciolta, più veloci degli uccelli e persino dei venti. Virgilio nell’Eneide (III) nomina soltanto Celeno, che secondo Omero si sarebbe chiamata Podarge, dicendo che quelle della sua specie hanno fattezze fisiche simili agli uccelli ma con il volto di giovani ragazze, artigli ricurvi, ventre immondo e pallida semper ora fame ossia pallide di una fame che non può essere mai saziata. L’occasione per narrare di questi ibridi è la spedizione degli Argonauti che in Virgilio viene descritta in maniera quanto mai differente rispetto al medesimo racconto fatto nelle Argonautiche (poema epico che racconta le vicende di un gruppo di eroi a capo dei quali si trova Giasone, pretendente al trono di Iolco, inviato nella Colchide per recuperare il vello d’oro) di Apollonio Rodio (vv. 262-300).
Infatti se nella narrazione di quest’ultimo l’incontro degli Argonauti con le arpie è organizzato dal re di Tracia, perseguitato da queste per mandato divino, in Virgilio si presenta come uno scontro del tutto inaspettato. Inoltre laddove nel primo caso manca una descrizione di questi crudeli e temibili esseri, in Virgilio, come abbiamo già detto, è presente una dettagliata esposizione delle loro caratteristiche fisiche alle quali si aggiunge la capacità di parlare.
Le arpie acquisirono in questo modo carattere di divinità infernali, destinate al compito di sottrarre le anime dei morti per condurle nell’aldilà. A questo proposito nel libro I dell’Odissea (239-242) si racconta dell’episodio in cui Telemaco credendo morto il padre dice:
«Tutti gli Achei gli avrebbero alzato la tomba
e grande a suo figlio sarebbe gloria
venuta. Ma le Arpie lo rapirono in alto
senza gloria: se n’è andato non visto».
Il Liber Monstrorum (I, 44) mette insieme tutte queste notizie, servendosi in parte di Omero, ma per la maggior parte di Virgilio.
La descrizione delle arpie all’interno di questa sorta di enciclopedia del mostruoso è la seguente:
«Si legge che nelle isole Strofadi del mar Ionio ci furono alcuni mostri, le arpie, in forma di uccello, ma col volto di vergine, che potevano parlare le lingue umane. Erano sempre insaziabili, spinte da fame rabbiosa, e strappavano di mano a chi mangiava il cibo con gli artigli adunchi».
Nell’iconografia antica si generò una forte somiglianza tra le Arpie e le sirene, per cui in età ellenistico-romana se ne fece una contaminatio, come Arpie-sirene. In realtà il motivo di questa comunanza è dovuto alle descrizioni fatte da Apollonio Rodio, Ovidio, Isidoro di Siviglia e altri che le considerarono donne-uccello dal piumaggio rossiccio e il volto di vergini.