UNA NOTA (IN NERO) SU “LO SQUARTATORE DI NEW YORK”

Lo squartatore di New York è un film cattivo, ma non è un cattivo film: forse, anzi, la ferocia è la sua qualità più rilevante. Senza dubbio una cultura come la nostra, che insegna per immedesimazione e fa modellare il comportamento dei propri componenti in maniera diretta sul manufatto artistico (vedo un film nichilista e mi intristisco, ne vedo uno ottimista e mi sento fiducioso), non può che guardare con sospetto a un’opera come quella di Fulci: ciò appare con evidenza dal fatto che la censura inglese lo ritenne fin dal 1984 il peggior “video nasty” (M. Hostench / J. Martì, Pantalla de sangre).

Nell’ottica scimmiesca a cui mi riferivo poco sopra, Lo squartatore merita il posto in cui è collocato: la storia di massacri perpetrati dall’omicida seriale nulla lascia all’immaginazione, in un crescendo di raccapriccio sapientemente orchestrato da Fulci secondo le ferree leggi del climax e del montaggio alternato. Si parte infatti dalla studentessa accoltellata per arrivare alla pornoattrice sventrata con una bottiglia rotta; a questo punto una pausa (si fa per dire) in cui la protagonista viene uccisa, ma solo in sogno: un sogno di ironica qualità in cui si possono scorgere, dall’interno della gola di Fay mentre viene lacerata, gli occhi dell’assassino. Si riprende quindi con i crimini portati a termine: la ninfomane in cerca di sesso pericoloso straziata a coltellate e, dulcis in fundo, l’amante del poliziotto torturata a morte. Questa volta lo scempio è causato da una lametta di rasoio e trova nel taglio di un capezzolo e soprattutto in quello d’un occhio il momento più forte dello Squartatore, tanto forte da far pensare al fruitore empatico che forse ciò a cui assiste è dotato di una carica eccessiva da sopportare per il proprio sguardo, al punto da cortocircuitare la possibilità stessa di vedere: come Kitty non vedrà più dopo che il suo occhio è stato sezionato, così – idealmente, sia ben chiaro – lo spettatore che ne osserva il supplizio dopo non riuscirà più a sostenere neppure la vista di un innocuo cartoon per ragioni di shock emotivo; due diverse cause, un medesimo effetto: la cecità – fisica, non metaforica – come effetto paradossale del cinema. La volontà di esporre il pubblico al pericolo di una violenta fisicità della visione mi pare sia evidente anche nella scena in cui il portoricano masturba col piede la ninfomane, o quando il sesso nudo di quest’ultima viene tastato dalla mano monca del drogato-gigolò: in entrambi i casi sembra quasi di sentire il lezzo greve della carne.

In sostanza, Lo squartatore è un film “umiliante”, sia per le figure femminili che per lo spettatore, in quanto riporta tutti (regista incluso) sulla terra. A questa legge, d’altro canto, non sfuggono neppure gli altri personaggi: il tenente perde la sua amante perché mentalmente e fisicamente troppo lento; lo psicologo, scacchio non scacchi, deve sottomettersi alla sua passione omosessuale; il gigolò è letteralmente impastato di esigenze fisiche, sesso o droga che siano; la bambina ha un braccio amputato e soffre d’un male incurabile. Una vera corte dei miracoli, questa, se la si interpreta secondo scopi ultimi umanisti!

Eppure non direi che tutti i personaggi siano permeati di negatività: è semmai l’idea che il mondo si muova secondo leggi antropomorfe a provocare questa allucinazione. Loro, sono come sono. Prendiamo la parte finale del film, che sembra la vignetta conclusiva d’un fumetto di Paperoga (in cui ciascuno pensa agli affari suoi, chiuso nella propria incomunicabilità): lo squartatore è ucciso, il tenente è depresso per la morte di Kitty, lo psicologo abbraccia Fay (ma sappiamo che nessun lieto fine potrà mai esserci per i due), la bambina sta morendo in ospedale, da sola, il regista inquadra panorami urbani sempre più degradati, aridi e anonimi… Eccola, se abbiamo il coraggio di guardarla in faccia, la vera conoscenza: “la celebrazione più esatta possibile del disordine che è la nostra vita”, per dirla con Peter Sotos. Fulci prende atto di questo caos – senza speranza, senza disperazione – e forse la mancanza di una forte e coerente struttura narrativa, soprattutto nelle sue ultime opere, a favore della visionarietà (per i suoi cultori) o del pasticcio (per i suoi detrattori) indica una sostanziale mancanza di fiducia nelle matematiche umane.

Gianfranco Galliano