TITANIC

Oceano Atlantico, al largo di Terranova…

Sono circa le nove di mattina e siamo  qui, con il nostro piroscafo, e ci comunicano che sempre qui, più o meno nello stesso punto, ma a 3800 metri di profondità giace il relitto del TITANIC, affondato nel lontano 15 aprile del 1912. Affacciata sul parapetto della prua del piroscafo dove sono imbarcata, mi guardo intorno ed in questa limpida mattina di luglio, con il sole che mi accarezza la nuca ed un vento quasi tiepido che gioca con i miei capelli, mi sembra impossibile pensare ad un immenso iceberg assassino che squarcia la fiancata della nave più inaffondabile al mondo.

Un gabbiano, a volo radente, mi sorvola, e lanciando il suo grido roco sembra voler smentire questa mia benevola impressione.

Mi piego allora di più sul parapetto per guardare il mare… L’immenso oceano, culla di misteri e, nei secoli, tomba d’innumerevoli navi e persone.

Un brillio improvviso attira la mia attenzione…

“È il sole che gioca con le onde” mi dico, e fisso ancora meglio lo sguardo in quel miraggio marino… E ciò che mi pare di scorgere mi toglie il fiato.

Innumerevoli corpi galleggiano sotto di me… Cristalli di ghiaccio i loro volti… Cristalli di ghiaccio, come diamanti preziosi tra i loro capelli.

Scorgo l’immagine pietrificata di uomini e donne, giovani ed adulti… Vedo lo strazio eternizzato sul volto di una mamma che stringe al petto il suo bambino.

Un popolo di anime sperse tra l’indifferenza ed il mutismo del vasto Oceano.

Non riesco a rimanere insensibile… muta anch’io come le fredde acque.

Ed allora sporgo un braccio, come a voler afferrare qualcuna di quelle sagome umane, a galleggiare nel ricordo e nell’immaginario comune per l’eternità.

E mi giungevano le loro voci, i lamenti, ma, nella sfumatura del tono di alcuni, percepivo anche la fierezza per il coraggio mostrato.

In nessun posto, al pari di quello, anime inquiete vagavano tra le acque, abitavano gli abissi più profondi dello sconfinato oceano.

Forse soltanto a me era dato percepire quella luminescenza, come una vaporosa nebbia opalescente dove quelle ombre non paghe si muovevano, si contorcevano, scivolavano. Mi parve poi che alcune sollevassero le mani verso l’alto, verso l’ambita superficie, lontana, ormai a loro negata, per sempre irraggiungibile…

Nelle spire di quella nebbia, qualche volto, sforzando l’immaginazione ed il desiderio, potei iniziare a distinguerlo e quelle bocche, da tanto tempo mute, parvero d’improvviso volermi parlare.

Muta testimone a mia volta, mi sforzai di comprenderle… Impellente si evidenziava nel loro sguardo il voler raccontare il loro strazio, affinché il ricordo non svanisse, affinché la pena, facendone depositario qualcun altro, si alleggerisse.

E di lì a poco fu tutto un coro, a volte cupo, a volte argentino…

E divenni una di loro infine, perché se non ero lì con il mio corpo e forse non sarei mai divenuta sedimento o alga, il mio spirito, che era entrato in comunione con quella loro energia residua, sarebbe invece per sempre rimasto a far loro compagnia.

Myriam Ambrosini

(Pubblicato originariamente il 20 luglio 2023 su “CulturaOltre”)