Fra gli esperimenti che usano mezzi appropriati per simulare uno snuff movie in modo sbalorditivo, fra i più celebri esempi storici vi è “Guinea Pig: Devil’s Experiment” (1985) di Satoru Ogura: primi indizi, la mancanza di crediti e l’immagine volutamente sgranata; le riprese, invece piuttosto ricercate, si svolgono quasi tutte in una stanza, secondo i canoni del “genere” donna-seviziata-e-uccisa. Non mancano comunque sdrammatizzanti strizzatine d’occhi allo spettatore: una laconica parola d’introduzione scandisce ogni tortura e durante il suo svolgimento dei numeri indicano, nera ironia, la quantità di schiaffi o pugni raggiunta.
“Guinea Pig 2: Flowers Of Flesh and Blood” (anch’esso uscito in Giappone nel 1985) di Hideshi Hino, dotato di crediti e anche d’una didascalia iniziale che lo denuncia come finzione, segue il suo predecessore con una violenza tanto maggiore (a base di arti amputati e sangue a profusione) quanto minore è l’intenzione di simulare uno snuff. Centro del film è un maniaco in veste di samurai – classica icona del Giapponese con “G” maiuscola – che proietta il pubblico in un universo di delirio fatto di tormenti presenti (quelli alla vittima di turno), passati (i resti di cadaveri che colleziona) e futuri (la nuova donna già individuata) nei quali ritengo lo spettatore nipponico fatichi a non identificarsi, lo voglia o meno, proprio a causa della figura emblematica utilizzata da Hino. A squartamento avvenuto, il maniaco si accende una sigaretta come dopo il più naturale dei coiti: estrarre le viscere di una donna, quella è dunque la sua maniera normale di far sesso – o forse ognuno obbedisce a proprio modo all’impulso a procreare, anche se certo non tutti i modi sono uguali sotto il profilo biologico, morale e penale; fatto singolare per noi occidentali, la vittima non compare mai nuda.
L’interesse dei primi due “Guinea Pig” (gli episodi che seguono, pur fregiandosi dello stesso titolo, quanto al genere spaziano dall’umorismo gore al fantastico) si concentra nello sperimentare i massimi livelli di violenza visiva, che verrà poi utilizzata in modo più misurato e narrativamente articolato in sede di lungometraggio: lo shock ripetuto prelude quindi alla desensibilizzazione psichica – il callo, una volta che la ferita sia guarita – necessaria perché lo spettatore possa sopportare scene prima ritenute intollerabili: per fare un solo esempio, si pensi alla crudezza con la quale Spielberg girò lo sbarco in Normandia di “Salvate il soldato Ryan” (1998); sarebbe stata pensabile senza queste (e naturalmente altre) avanguardie dell’estremo?
Ma la ferita è realmente guarita per tutti?
Nel 1989, Tsutomu Miyazaki fu arrestato per la mutilazione e l’assassinio di quattro ragazze; nella sua casa vennero trovati moltissimi video, fra cui “Flowers Of Flesh and Blood”. Il film, prima liberamente circolante, fu vietato ai minori di 18 anni. Nonostante in esso tutto sia falso, gli venne dunque riconosciuta una qualche pericolosità reale: non voglio discutere degli effetti autorizzanti che avrebbe il cinema su persone mentalmente disturbate – anche perché si potrebbe con altrettanta legittimità sostenere il contrario (quante donne salva la pornografia da potenziali assassini che si scaricano su di essa evitando di passare all’azione?) – ma piuttosto ricordare che ogni cultura il cui metodo di apprendimento si basi in misura eccessiva sui principi di imitazione ed immedesimazione deve aspettarsi azioni simili da alcuni suoi componenti (se si portano dei ragazzi a visitare i “luoghi manzoniani”, quasi che Manzoni avesse vissuto – e non scritto – “I promessi sposi”, come ci si può poi lamentare che alcuni di essi imitino le gesta di Alex in “Arancia Meccanica”?). È chiaro che non è una singola opera ad autorizzare a comportamenti violenti, ma piuttosto la forma sociale interiorizzata dell’apprendimento – questa sì realmente forte e autorevole nell’inconscio di ciascuno di noi, e ancor più in quelli psicologicamente deboli. Stando così le cose, diventa difficile abbandonarsi senza un briciolo di rimorso al paradiso dell’irresponsabilità, al trionfo dell’inautentico rappresentato dai “Guinea Pig”: abbiamo ancora molta strada da percorrere prima di poterlo fare, se una giovane metallara può dire che il leader di un gruppo musicale colpevole di omicidio è stato coerente con la sua arte, e quindi è migliore di tutti coloro che suonano black metal, ma non vivono black metal (Moynihan/ Soederlind, Lords of Chaos). A tanto può condurre la ricerca del Vero, dell’Autentico. Dell’Essenza.