ERATAI 11 – IL CANTASTORIE – QUARTA PARTE: IL VOLO DELL’UCCELLO DI LUCE

“Maestà, il bagno è pronto.” Fece l’Assistente di Sala.

“Ti ringrazio Moronor, ma provvederò io stesso alla preparazione del soggetto.”Replicai

“Come desiderate, Sire.  Resterò a vostra disposizione comunque in sala.”

Mi occupai del Cantastorie personalmente, non volli altre mani se non le mie sul suo corpo. La sala delle vasche da bagno era un luogo pulito e profumato, dai colori riposanti . Lì lavavamo i nostri Allaghèn e qualche prigioniero dei Ribelli. Spesso era un’operazione piacevole per chi la viveva. Gli Assistenti erano Cavalieri addestrati a non essere bruschi, maestri dell’uso di oli e balsami rinfrescanti. Moronor era il capo della squadra dei “Pulitori” come venivano chiamati quei Cavalieri. Un Uomo grassoccio, dalla pelle scura e lunghi capelli ramati. Mi piaceva molto il suo modo di fare con gli Allaghèn, maturato in quasi tre centurie di vita. Spesso lo andavo a trovare mentre lavorava, e ci scambiavano opinioni sul come non indurre troppo stress in un soggetto appena catturato.

La sala profumava con un vapore morbido e tiepido. L’Allaghèn di Lastours cominciò a svegliarsi dal sonno indotto. L’avevo adagiato su un materassino per prepararlo al bagno. Moronor era vicino a un tavolo e stava filtrando i balsami necessari.

“Questo soggetto è patologicamente sporco, Maestà!” disse con un senso ironico nascosto nella barba “Sa di selvatico come nessun altro.”

Sorrisi: “L’ho notato. Neppure una moffetta puzza in questo modo.”

“Dov’è vissuto fino a ora? Il suo corpo sembra la raccolta di odori di una foresta.”

“In un bosco, appunto.” Risposi “siamo pronti.” Dissi.

Moronor: “L’acqua è come mi avevate incaricato di miscelarla.  La temperatura la vedete sulla parete.” Replicò.

“Ottimo, è tutto perfetto.”

La preda schiuse gli occhi, balbettò  confusa qualcosa come: “Dove siamo?”

“Non devi aver paura, sei nel mio Castello, come ti avevo promesso. Ti ho dovuto far dormire un po’ per preservarti dal viaggio, che avrebbe potuto farti male.” mentii. L’avevo intorpidito perché un Allaghèn infuriato a bordo di un cargo è peggio di una tempesta nello spazio profondo.

Con movimenti impacciati dal sonno riuscì a guardarsi attorno. Si vide nudo, e s’accorse di Moronor: “Cos’è questo posto?” farfugliò con la voce impastata.

“ Pensavo ti facesse piacere un bagno tiepido prima di cenare.” Dissi.

“No, io non voglio. Non mi piace…” replicò con un filo di fiato.

“Non ti piace il bagno?”

“No, non lo faccio mai. C’è il fiume. Dove sono i miei vestiti? Il Gilet?” sembrò preoccuparsi.

“Li ho ripiegati per bene e posati sul tuo letto. Non  temere, ne ho avuta molta cura.”

Era vero, avevo trattato il gilet con una premura degna di un ermellino regale. Non era vero  che l’avevo riposto sul suo letto, bensì giaceva in una teca del mio laboratorio, perché studiassi bene la sua conciatura, assieme al cappello e alla cappa.

Sollevai la mia preda con delicatezza e la portai sull’orlo della vasca.

“No, vi prego. Non mi piace.” Tentò di dissuadermi. Era indebolito dall’anestetico e non poteva opporsi di più.

“È per il tuo bene.” Replicai.

Lo immersi. Scalciò, sia pure in modo fiacco, per dimostrarmi il suo disagio.

In realtà il balsamo sciolto nell’acqua rilassò i suoi muscoli e la sensazione sembrò piacergli. Moronor preparò spazzole e saponi. Il trattamento rende più disponibili i prigionieri ai miei scopi. I Ribelli, dopo una lunga esistenza di durezze e stenti, si lasciano andare nel torpore delle vasche. Non subito. Mi ci vuole del tempo per convincerli a quel piacere.  Ma gli Allaghèn cedono subito. Non sono guerrieri e non hanno preso parte ai combattimenti, perciò non sanno cosa significhi la parola “nemico”. Per loro io sono un grosso predatore, che catturandoli non li ha divorati, ma messi in gabbia, chissà per quale oscuro motivo. In  qualche modo non mangiandomeli, ai loro occhi, da predatore sono diventato qualcos’altro di non identificato, ma non maligno.

Lo portai nel suo alloggio. Non era la sala ampia e luminosa che gli descrissi a Lastours. Nemmeno era arredata con giocattoli e colori di cera. Mentii su ogni cosa quella sera. Non mi fu difficile ingannare quell’ Allaghèn. Conoscevo le corde da pizzicare della sua ingenua anima. Se riesci a non passare come un predatore grande e grosso ai loro occhi , allora la maggior parte dello sforzo l’hai compiuto. La  fiducia di questi Esseri di Luce crescerà nella misura in cui tu sembrerai come loro: contento di poter fare un corsa nel bosco, nuotare nel ruscello, o mangiare fragole selvatiche e, naturalmente, giocare.  In particolare “Chancenoir” mi parve più candido rispetto ai suoi simili.  Si affidò subito a me, accettando le mie scuse durante il nostro secondo incontro. E fino all’ultimo non sospettò di nulla. Forse neppure adesso, che lo stavo portando verso una squallida stanza dalle pareti di metallo, stava pensando male di me.

Abbigliato con dei vestiti semplici e puliti lo feci entrare nella sua nuova abitazione.

Si guardò attorno; a dire il vero, non c’era molto da osservare. La stanza era grande non più di due o tre passi, senza alcun arredo, a eccezione di un materassino sul suolo. Ogni parete era liscia come il marmo e di metallo lucido. 

“Cos’è questo posto? Perché mi avete portato qui?” frignò preoccupato.

“Per ora starai qui dentro.” Gli risposi.

“Ma no, no! Mi avevate promesso che saremmo stati insieme, e che c’erano gli animali in cortile!”

“Calmati, non sempre la realtà è quella che descriviamo.”

Si bloccò guardandomi: “Cosa significa?” mi chiese.

“Sei qui per un altro scopo. La vita non è solo giocare e far correre i cani dietro i ramoscelli. C’è qualcosa di più nobile e sacro.” Cominciai la seconda fase della menzogna.

Sembrò non capire. In effetti davvero non capiva.  Assunsi un tono grave, quasi sacerdotale. Lui si azzittì.

Entrò docile nella stanza e deglutendo per la soggezione mi chiese: “Qual è il mio scopo qui, Vossignoria?”

“Ne riparleremo. Per ora devi sapere solo che sei importante per noi, troppo importante per lasciarti vivere come un randagio.” Replicai.

“E perché devo stare in questo brutto posto?” Indicò la cella.

“Perché qui ora sei al sicuro.”

“Al sicuro? Vossignoria da cosa dovrei essere al sicuro?”

“Da forze oscure, energie contrarie che vorrebbero rapirti. Per questo ti ho cercato e condotto qui.”.  Non vi era alcuna forza capace di rapire un mio prigioniero nel mio castello. Se mai vi erano forze capaci di fuggire dalle loro prigioni. E quelle celle erano concepite per contenere la Luce di un Allaghèn. Anche trasformandosi, da lì non sarebbe riuscito a scappare. Lo sforzo per trattenere i fotoni risucchiati dal materiale particolare delle pareti, lo avrebbe indebolito, sottraendogli l’energia necessaria per passare attraverso il massiccio rivestimento di piombo dell’esterno. Quelle gabbie erano il mio capolavoro. Alath stesso ne fu entusiasta.

“Dunque Adam ha messo in gabbia l’Uccello di Luce.” Tuonò l’alito divino nell’anello di pietra sospeso nel tempio.

“ Se l’Onnipotente si riferisce al demonio incontrato a Lastours, non penso di averlo fatto, ho catturato l’Allaghèn come mi è stato ordinato.”

“Adam, in quel demone alligna la mal’anima alata.” Replicò.

“Il mio Signore Dio mi sta dicendo che sarei riuscito a ingannare un demone?”

“Ti abbiamo mai mentito?”

“La vostra voce è la verità, mio Signore.”

“Dunque è così, Adam. Abbiamo reso la tua astuzia  pari alla tua immaginazione. E salda è la tua fede, e forte la tua anima: in questo modo l’Uomo che abbiamo designato al trono di Erat in nostro nome, ha sconfitto il male che infestava i castelli di Lastours.”.

“Adesso, Mio Signore, qual è la vostra volontà?”

“Porterai quella creatura all’Altare Nero. Lì lo allaccerai alla macchina centrale. Assicurati che l’Altare sia ben isolato. Il suo interrogatorio non puoi condurlo da solo, assieme al Rango Nero. Quindi saremo presenti in quel momento. Abbi fede, qualunque cosa uscirà fuori dalla trasformazione di quell’Allaghèn, noi saremo accanto a te.”.

Rimasi frastornato, non era usuale che Alath scendesse durante un interrogatorio o un’operazione di allaccio alla Macchina. Quando lo faceva era perché forze spaventose potevano liberarsi sull’Altare Nero, il cui controllo era assolutamente fuori dalla portata di un Uomo.

Sfiorai con la fronte la terra e proferii le formule sacro di rito. Mi congedai dal tempio.

“Vossignoria, per quanto tempo dovrò stare qui dentro?”trillò,  alzandosi nel vedermi.

“Monsieur, abbi pazienza. Non è una cosa semplice.” Dissi.

“Qui ci si annoia. Non c’è che la luce della lampada e mi fa male agli occhi. Non posso neppure disegnare.” Si lagnò.

“Adesso non t’annoierai.” Gli presi i polsi e mi guardò perplesso.

“Cosa fate, signore?”

“Debbo tenerti ferme le mani, altrimenti potresti farti male.” parlai, legandolo.

“Ma no, non preoccupatevi, so tenerle ferme le mie mani!” fece, reagendo.

Forzai la sua ritrosia, bloccandolo.

“Vossignoria, non mi legate, ho paura! Per favore!” piagnucolò.

Non mi curai delle sue lamentele e lo spinsi a uscire dalla cella.

“Non importa se ‘lui’ non ha capito, Adam. Da qui ti vedo e so cosa succederà fra non molto. Non tornerò nel corpo per evitargli un dolore infinito: il tuo tradimento. L’abbiamo già dovuto provare”

“Dannato demonio, stai attento a come parli! Qui di traditore ci sei solo tu!”  inveii.

L’Allaghèn puntò i piedi, lasciandosi trascinare. Mi seccai delle sue lagne. Voltandomi con aria scura lo sollevai e lo presi sulla spalla. Si chetò. Notai come il contatto con il mio corpo aveva un effetto calmante su di lui. Ogni qual volta lo avvicinavo infatti cadeva in uno stato di tranquillo torpore.

Quel caldo feroce che provai a Lastours mi attaccò di nuovo. Lo sentii nascere nel punto in cui il corpo dell’Allaghèn toccava il mio, in modo identico a quanto accadde mentre eravamo in sella su Awan, durante la discesa. Udii un battito forte, profondo, di un cuore sconosciuto, al centro esatto del calore. L’aria attorno cominciò a farsi densa. Rivi di luce l’attraversavano come lampi senza morte. Nell’apoteosi di quest’emanazione si ersero due ali tondeggianti, grandi quasi come l’intera larghezza del corridoio, ampio abbastanza per un drappello di cavalieri.  Dalle ali un collo apparvero due occhi bianchi e terrificanti, mai visti prima. Mi fissarono. Poi tutto scomparve, come avvitandosi in un gorgo nero di nulla.

“La tua fede è salda, Adam.” Ricordai le parole di Alath e lasciai il corridoio, con passo deciso, senza dar modo alla creatura di luce di pensare a un mio tentennamento. Cercai di non pensare a cosa stesse accadendo, almeno fino al momento in cui non fummo nel Tempio.

Il Rango Nero era pronto. Nel vedermi s’inchinarono.

“Maestà, siamo pronti all’esecuzione del Rito.” Disse con tono solenne Dor Om il capo dei sacerdoti neri di Alath.

Misi l’Allaghèn su una lastra di marmo, perché lo preparassero all’Altare Nero.

Scattò, inarcando la schiena, per il freddo contatto della superficie con la sua pelle. Due mani grigie lo spinsero indietro. Il Rango Nero non parla, se non con Alath o con me. Il cranio massiccio e liscio del capo si abbassò, erano pronti per procedere al Rito.

Mi chinai e baciai il suolo, evocando il mio Dio. Misi la fronte sulla terra, finché il suo tuono non scosse il silenzio.

Il Rango Nero obbedì a un ordine impercettibile. Due di loro presero l’Allaghèn e lo portarono sull’Altare Nero, il luogo dell’innesco alla macchina centrale del tempio. Le loro dita dalla pelle viscida e grigiastra si mossero di fretta  allacciandogli i polsi e le caviglie alla pietra nera. Terminai le formule sacre e mi levai in piedi. Con l’unzione del suo corpo  attraverso l’olio sacro diedi inizio al Rito.

Ora Alath stesso era presente nel Tempio, percepibile come un’aurea possente, un soffio di fuoco e di nuvole. Il vapore nero del Dio si sparse sull’addome disteso dell’Allaghèn. Questi si contorse: “No, non voglio, non voglio!” gridò. La nube si fece sempre più densa su di lui, tanto che sembrò posarsi sulla pelle.

“Fa male! Vi prego, Vossignoria, toglietemela!” pianse.

Non aveva idea, povera piccola creatura ignorante, di cosa stesse aleggiando sul suo corpo.

“Smettila di piangere, perché stai vivendo la più grande e sacra dell’esperienza.” Gli dissi.

“No, non lo so, mio Signore, ditemi, vi prego, cosa sta succedendo?” frignò.

“Sei molto importante per noi. Lui ti ha scelto. Rallegrati, perché oggi Dio è sceso su di te e ti ha unto con il suo carisma.”

“Che cos’è Dio, cosa significa carisma?” replicò con un respiro rapido e affannato.

“Dio è la fonte della vita, di tutto ciò che vedi e conosci. Il suo carisma è la sua predilezione verso una creatura.”  La sua ingenuità era quasi commovente, ma la commozione per il Re degli Uomini è un sentimento pericoloso.

“Dio fa male?” chiese, con un tono lievemente più calmo.

“Dio non fa male, ma porta con se il peso della più grande delle responsabilità. La sofferenza che percepisci è la santità che lava i tuoi peccati.”

“Cosa sono i peccati?” sospirò “Perché parlate così difficile?”

“Un artista che non conosce il peccato?” sorrisi ironizzando. Ma c’era Dio nel tempio, non potevo prendermi gioco del suo candore, avevo questioni più serie a cui badare.

“Le tue colpe, mon amì, i peccati sono le tue colpe.”

“Quali colpe avrei commesso, mio signore? Se vi ho offeso, vi prego, perdonatemi!”

“Non hai offeso me con il tuo comportamento tollerante verso il demonio, ma Dio stesso,con la corruzione della tua anima.”

“Vi sbagliate tutti, io non ho fatto nulla di male a voi! Demonio? Cos’è? Perché mi dite queste parole che non conosco?” pianse, impaurito.

“Tu lo hai visto, eri con me quando è apparso. Un grosso e potente Uccello di Luce. Quello è il tuo peccato, la tua colpa. Non nascondermelo. Io posso salvarti. Lui vuole possederti e da te succhiare luce ed energia.”

“è così cattivo il mio amico?” si calmò, cercando di capire.

“Bravo, ascoltami. Sei qui perché abbiamo visto in te qualcosa che nessuno possiede fra i tuoi simili. Sei una delle creature più importanti per noi perché la tua anima è pura e Dio l’ha scelta per farla Santa. Ma un demone adesso vuol rubarti il tuo candore. Non devi permetterglielo. Fallo uscire e io lo prenderò, Dio stesso combatterà per te questo diavolo.”

“L’Uccello di Luce, Signore, volete che esca l’Uccello di Luce?”

“Mi hai capito, sei molto intelligente.”

“Ma Vossignoria, io non conosco come fare.”

“Ti aiuterò.”

“Poi mi farete andare nel vostro cortile? Mi toglierete dalla stanza grigia?” si riferiva alla sua prigione di metallo.

“Ti aiuteremo nella misura in cui tu aiuterai noi. Se ti tieni quel demonio dentro, non posso di certo lasciarti in mezzo ad animali innocenti, con il rischio che li uccida o peggio.”

“No, io non uccido nessun animale!” si ribellò, contorcendosi.

“Tu non faresti del male a nessuno, lo so bene, conosco la tua anima bianca. Ma è quell’essere immondo, nato nell’inferno del peccato capace di procurare il male peggiore che puoi immaginare.”

“Non parlate difficile, vi prego Vossignoria! Ditemi solo se sarete con me quando il mostro uscirà. Perché ho paura di quello che mi avete detto, di finire sbranato dal diavolo!”

“Non ti farà alcun male perché Dio è qui con te, è sceso su di te. È la tua barriera. Liberati da quel mostro, fallo uscire da te,  io l’ammazzerò.”.

“E poi? Mi farete colorare con i vostri pastelli, e poi mi lascerete tornare a Lastours?”
“Non so se dopo quell’essere verrà a cercarti, quindi non penso di poterti abbandonare da solo. Ma ti farò fare quel che vuoi in quella bella camera che ti ho descritto.”

Un lampo e il suo boato irruppero nel tempio.

Non era la voce di Alath. Il fragore era più simile a una valanga di neve che al suo tuono. La luce bianca e accecante si plasmò in due occhi.

Il vapore denso e nero di Alath si ritrasse dal corpo dell’Allaghèn.

La luce spiegò le sue ali e con queste la sua identità, Avevamo evocato quell’essere dagli inferi e ora aveva accettato la nostra sfida.

Alath tuonò: “Blasfemia dei tempi, corruzione della luce, così sei fatto.” rimasi perplesso nell’udire quelle parole.

La luce: “Alath, non ingannare i tuoi servi, tu non potevi conoscermi perché io c’ero da molto prima di te, da quando non esisteva neppure un prima e un dopo.”

Alath: “Ora siamo io e te, e pareggeremo i conti, una volta per tutte.”

“No, Alath, non cado nel tuo tranello. Non è un duello fra me e te, questo. Tu vuoi portarmi nella Macchina, lo so. Farai di tutto per spingermi verso il buco nero che hai creato apposta per ingoiare la mia energia.”

“Non rivolgerti a Dio in questo modo sfrontato!” intervenni.

“Rinfodera la tua spada, Re degli Uomini, il tuo tempo non è giunto. Continua a dormire sotto la coltre di Alath. Io aspetterò il tuo momento. Alath…”

Poi tutto scomparve, la luce e la nube.

Or Om: “Nostro Signore ha lasciato il tempio, Maestà?”

“Lo ha fatto. Il demone è fuggito, e non essendo più vitale, la  presenza di Dio qui sarebbe stata pericolosa per noi.”
“Non combatteranno?”

“Lo stanno già facendo, forse l’ha inseguito. Non mi è concesso di saperlo. Se lo avessero fatto qui ci avrebbero distrutti con la loro energia divina.”

Guardai l’Allaghèn esausto.

“Bravo, amico mio, sei stato molto bravo. Avrai la tua ricompensa.”

 Stavolta mantenni la parola. Lo portai nella sala promessa. Mentre lo ricomponevo sul suo letto curandomi che non fosse ferito o peggio, osservai come il suo corpo sembrasse un barattolo vuoto. Gli guardai i suoi occhi grandi screziati d’azzurro e nero.  Non c’era luce. La cosa mi colpì. Un Allaghèn non rimane senza brillio negli occhi. Neppure da morto, visto che quando muoiono, scompaiono. Fu come se sul letto vi fosse una bambola, un manichino. Gli tastai la vena del collo, e sentii il suo pulsare. Non era morto. Gli presi un braccio e lo lasciai a mezz’aria. Ricadde rimbalzando sul materasso, come un pezzo di gomma. Anche la pelle divenne diversa. Era umida fredda, e delle venature bluastre si erano create attorno alle labbra e sul ventre.  Non era cianotico, l’aria passava bene nei suoi polmoni. L’ appurai in modo particolare con un sondino. Quel colorito cadaverico quindi doveva essere causato da altro. Anche il suo cuore sembrava in salute, forse un po’ lento, ma viste le condizioni, era normale.

Abbassai la luce, per non dargli troppo fastidio. E mi alzai per prepararmi a degli esami più minuziosi. Quando un colpo di tosse spezzò il silenzio cimiteriale. Mi voltai, allibito. Si stava agitando in modo irrazionale. Tossiva sputando una saliva liquida come acqua.  Più che  risvegliato da  un coma sembrava sopravvissuto a un annegamento! Il colore bluastro scomparve, anche se le sue labbra rimasero annerite. Lo aiutai a sedersi, in modo che vomitasse il liquido senza strozzarsi.

In tutta la mia vita non ebbi mai modo di vedere qualcosa di simile in un Allaghèn. Analizzai quella saliva. Rimasi senza parole. Era un liquido un po’ più denso dell’acqua. Guardando le sue molecole sul mio simulatore virtuale vidi qualcosa che nell’acqua in genere non si trova, il doppio atomo d’idrogeno. Era chiaro adesso cos’aveva sputato l’Allaghèn.  Si trattava di acqua pesante. La disperata tecnologia dei Figli di Caino ne ha fatto uso per i suoi reattori nucleari. Una scienza rozza, la loro fisica. Noi la usiamo principalmente per la contenzione e le punizioni degli Allaghèn. Per questo rimasi esterrefatto nel vedere il suo corpo rigettare quel composto. Da dove proveniva l’isotopo d’idrogeno in più, il deuterio? Nel bilancio quantistico della sua energia un Allaghèn non può disperdere idrogeno. Non può creare acqua se non per le funzioni biologiche del suo stato corporeo. L’idrogeno è un prezioso proiettile che innesca i pensieri fotonici, non viene usato a caso, o almeno accade più o meno nella misura in cui noi ragioniamo su pesanti problemi da risolvere, sia un’equazione matematica, la composizione di una musica, o altro. Liberare l’energia “senziente” dei fotoni equivale a disperderla e di conseguenza ogni granello d’idrogeno viene trattenuto scrupolosamente. Noi possiamo alcolizzarci sino a distruggerci il cervello, loro possono ingerire acqua pesante, distruggendosi i proiettili d’idrogeno. Ma non lo fanno. In realtà il mio esempio è poco verosimile anche se fa capire quanto sia importante quello che scoprii. Un Allaghèn potrebbe vivere  con un apporto diverso di idrogeno. La sua vita sarebbe però miserabile. Abbiamo condotto un esperimento tempo fa. Facendogli ingerire a forza acqua pesante abbiamo distrutto il suo bilancio quantistico. Nel suo stato di luce sembrò essere solo una lampadina luminosa senza vita. Mi chiesi allora da dove proveniva quel deuterio. Ebbi l’impressione che fosse l’Uccello di Luce la sorgente degli atomi in eccesso. La cosa si era fatta confusa, e pesante.

Accadde qualcosa.

L’ Allaghèn ebbe uno spasmo così violento che si rivoltò sul letto. Lo soccorsi, sollevandogli la testa, in modo che non soffocasse.

Vomitò ancora acqua con deuterio. Un Figlio di Caino avrebbe avuto dei problemi con così tanti isotopi in giro, ma Adam possiede una resistenza estrema alla radioattività. Trattenevo il suo corpo fra le braccia e potei percepire la sua energia scemare. Sembrava un pezzo di ghiaccio che stesse evaporando la sua acqua sotto il sole.

“No, aspetta, non morire, non adesso, accidenti!” sbottai.

L’unica cosa che potevo fare, visto che non avevo idea di cosa lo stesse distruggendo,  fu quella di trasportarlo al Tempio e consegnare così  la sua sorte nelle mani di Alath.

Lo avvolsi con una coperta e mi diressi veloce al Tempio.

“Orog Om, prepara un Altare. Sto arrivando con l’Allaghén di prima e richiedo la massima assistenza.” Ordinai al Capo del Rango Nero, mentre mi accingevo a raggiungerlo.

Distesi l’Allaghèn sull’altare. Rantolava irrigidendosi a scatti. Con forti colpi di tosse sputava acqua pesante.

Il Rango Nero non mi fece alcuna domanda, non era stato allevato da Dio per le domande, ma solo per obbedire. Le loro mani nerastre corsero veloci nel sull’Allaghèn preparandolo  al Rito.  Nonostante i rivoli d’acqua al deuterio che scendevano senza sosta dalla bocca, bagnando il resto del corpo, il Rango Nero continuò il suo lavoro. Anche questi esseri tollerano un quantitativo eccezionale di radiazioni.

“Fermi, aspettate!” feci, osservando il corpo dell’Allaghèn sbattuto sull’Altare. Lo toccai. Era freddo come il marmo sul quale era disteso. Gli guardai nelle pupille che ripresero a luccicare come quelle di un Allaghèn, ma non si muovevano. Gli palpai il collo.

“È morto!” sortii con un ringhio, stringendo i pugni.

“Dannazione!” scalciai, ma il Tempio mi avvolgeva d’un silenzio austero, ricordandomi l’imminenza della bestemmia sulla mia lingua. Mi ricomposi.

“Sì, signori, il soggetto è morto.” Dissi con la ritrovata calma.

La testa grossa e sproporzionata sul collo filiforme del Capo mi guardò.

“E non ho idea di cosa lo abbia ucciso.” Risposi anticipando la sua domanda.

Alath rombò: “Il demone che era in lui ha lottato con vigore. Ma la sua esistenza è contro la nostra legge, perciò non poteva vincerci. Quando ci ha sfidati, abbiamo combattuto.”

“Dunque, mio Singore, l’Uccello di Luce è stato ucciso?”

“Adam, ciò che nasce impuro è destinato a morire nel tormento.”

“Dunque non è un caso che il soggetto sia morto?”

Non parlò più.

Recitai le formule di ringraziamento per la sua spiegazione, anche se rimasi con l’enigma della morte dell’Allaghèn . Ma di Dio non si può conoscere tutto. La sua mente è insondabile.

Dunque era andata così? L’Uccello di Luce aveva ucciso il suo ospite per una ritorsione?

Stavo riflettendo, mentre passeggiavo sul bordo del

“Adam, tu vuoi conoscere ciò che accaduto?”

“Demonio! Assassino! Hai ancora il coraggio di farti vedere? ti ammazzo!” gridai

“Non torniamo alla materia dopo la nostra esperienza, Adam. Ti ci ha reso possibile un pezzo di viaggio nella Creazione, ma poi, una volta passati da lì, riprendiamo il nostro volo. La carne da noi abitata è destinata a guastarsi subito. Tu ci desti la materia perché vi entrasse la nostra luce come ci hai visti. Ma poi, passati oltre la vita nella materia, siamo altro. E ciò che tu ci ha regalato non riesce più a contenere la nostra energia. È  stato un volo breve su questo mondo, ma mi è piaciuto rivederti. Porterò buone notizie ad Aurora. Addio, Adam”

Non percepii  più la sua presenza.

Alessandra Biagini Scalambra