I FIGLI DEL GRANO: CHILDREN OF THE CORN 2 (?) – 7(?)

I figli del grano” (“Children of the Corn”) è un breve racconto horror scritto da Stephen King, pubblicato inizialmente nel 1977 su Penthouse e nel 1978 nella raccolta A volte ritornano. Il primo film tratto da esso è I discepoli del corvo, corto di John Woodward del 1983; il primo lungometraggio, Stephen King’s Children of the Corn (in italiano Children of the Corn – Grano rosso sangue), è di Fritz Kiersch e apparve nel 1984; nonostante il titolo originale in cui viene esplicitamente citato il campione dell’horror, la sceneggiatura di George Goldsmith si discosta in maniera significativa dal testo di King. A partire dal successo che ottenne, nacque tutta la famigliola di celluloide che tra breve andrò a presentare. Più d’un lettore di queste righe potrebbe però giustamente chiedersi: perché questa introduzione fra il saccente e lo stucchevole? Semplice, solo perché la serie di Children è un ottimo esempio pratico per dimostrare che nella realtà un primo, un originario, un ur, un’essenza, un autentico (con o senza “A” maiuscola) di qualcosa – qualunque cosa – non esiste: per esempio, il racconto di King – presunta origine di tutta la genìa che tra poco attaccherà banda – è largamente ispirato come ci informa Andrea Bruni a La festa del raccolto, romanzo di Thomas Tryon, che a sua volta… ma non voglio farvela troppo lunga, quindi partiamo:

Grano rosso sangue II: Sacrificio finale

Visto l’insperato successo di Grano Rosso sangue, che a parità di costi e incassi fu uno dei più redditizi adattamenti di King, a distanza di ben nove anni la Dimension Films, la costola trash della Miramax, pensò bene di ripetere il colpaccio con il sequel Children of the Corn II: Deadly Harvest. Il film esordisce nel momento in cui a Gatlin vengono trovati i cadaveri della carneficina perpetrata dai ragazzi del luogo nel primo episodio e si rivela un eco-horror con lo Spirito della Terra che si vendica dei torti inflitti a quest’ultima: la cricca di notabili del posto vende il granturco pieno di aflatossina (una muffa verde che fa impazzire soprattutto i ragazzi) mescolato con quello sano per ovvie, non meno che barbare, ragioni economiche e i giovani per tutta risposta agguantano nuovamente le armi (anzi le falci). Protagonisti della vicenda sono un reporter free lance dal passato professionale difficile alla ricerca di una storia importante che lo faccia rientrare nel mondo del giornalismo che conta, e suo figlio, che si è sempre sentito trascurato dal genitore. Prima del finale, il Granturco – che ci vede più o meno come Predator – avrà fatto le sue vittime, ma i due avranno imparato reciproca comprensione e rispetto, oltre ad avere incidentalmente incontrato l’amore e tolto di mezzo i malefici adolescenti. Com’è chiaro da quanto detto, Grano rosso sangue II è un’opera priva di ogni interesse. La sola lezione che da essa faticosamente si può trarre è forse a livello politico: le forme culturali al potere (informazione e scienza) sfruttano l’estremismo (i ragazzi del grano) per eliminare i disastri che esse stesse hanno prodotto (la banda dei notabili), salvo poi togliere di mezzo i propri sicari nel momento in cui diventano pericolosi: ma per questo è meglio leggersi direttamente Machiavelli e la sorte di Remirro De Orco. La Dimension aveva programmato l’uscita per Halloween 1992, ma visto il risultato pensò bene di distribuire il film direttamente in video, come avrebbe poi fatto per i successivi film della serie.

Grano rosso sangue 3

Lo schema della coppia protagonista viene riproposto con una notevole variante: i protagonisti sono due ragazzi di Gatlin adottati da una coppia di cittadini. La storia si regge sull’opposto rapporto che i fratelli hanno con l’ambiente circostante: mentre il più piccolo lo deforma a proprio uso e consumo arrivando fino a coltivare un campo di pannocchie in pieno centro cittadino e addirittura a costituire un gruppo di seguaci del Grano, il maggiore si lascia sedurre dalla vita urbana. Non mancano neppure alcune interessanti invenzioni: dai titoli di testa – stilizzati, rapidi ed efficaci – al montaggio analogico costruito a partire dal viso del padre con labbra e palpebre cucite che diventa il volto d’una statua, dalle dissolvenze sul granturco che cresce insieme ai rapporti intrecciati dal minore dei due ragazzi, fino alla sequenza della morte di Alice (la madre adottiva) che spira nel modo più verosimile, e pertanto realmente terrifico, scivolando e fracassandosi con tutta semplicità il capo contro uno spuntone. Da questo momento, però, Grano rosso sangue 3 si perde per strada, gettando al vento quanto di buono aveva costruito in una serie di scene che vorrebbero essere spaventose, quando in realtà dimostrano soltanto la secca di idee del regista e dei suoi collaboratori, ma soprattutto che essi non sono stati in grado di controllare fino in fondo il tema del loro racconto, in origine per nulla stupido. Il sequel occidentale e il suo opposto orientale, le scatole cinesi, trovano una perfetta corrispondenza nel carattere del fratello maggiore (virile, come lo è il prolungamento del sequel che si allunga di episodio in episodio) e di quello minore (femminile, allo stesso modo della storia che accoglie dentro di sé un’altra storia e poi ancora un’altra…): chi vincerà fra i due? Il film segna il debutto alla regia di James Hickox, figlio di Douglas (quello di Oscar insanguinato), a cui la pellicola è dedicata e fratello di Anthony (Waxwork e Hellraiser III) che qui viene accreditato come produttore esecutivo, ma che in realtà sembra essere stato coinvolto anche dal punto di vista artistico.

Inferno a Grand Island

Con Inferno a Grand Island, quarto (?) capitolo della saga, la Dimension, complici gli sceneggiatori Stephen Berger e Greg Spence (anche regista), decise di dare un taglio netto al passato (e alla continuity della serie), abbandonando una volta per tutte la cittadina di Gatlin e qualsiasi contatto con il racconto kinghiano. Anche lo schema narrativo subì una trasformazione e al posto dei due caratteri in contrasto che attraversano le desolate strade americane per andare incontro al loro destino, il film si apre con la giovane Grace che tornata a casa per curare la madre, affetta da agorafobia, si ritrova a dover fronteggiare un gruppo di ragazzi affetti da una misteriosa epidemia che li rende assassini sanguinari. Fra effettacci sanguinolenti (tra cui merita una citazione il dottore tranciato a metà da una barella) e morti violente degli adulti per mano di ragazzini, Inferno a Grand Island procede verso un ineluttabile finale in cui Grace, persa la madre, eliminerà il leader degli invasati, Giosaia, che non invecchia a causa di una massiccia cura di mercurio a cui venne sottoposto da bambino, colpendolo con una pallottola ovviamente al mercurio. Proprio su quest’ultimo, noto nel linguaggio comune come “argento vivo”, vale la pena di fare una riflessione: ciò che la protagonista uccide per via omeopatica, con una quantità eccessiva di metallo, è la smisurata carica vitale – l’argento vivo, secondo un’accezione metaforica dell’espressione – del bambino Giosaia: il nostro mondo non può che venire spaventato  dalla sua forza e dalla sua esuberanza, soprattutto  nell’epoca in cui in Occidente i “giovani” e l’ “esser giovani” a ogni costo appaiono esser divenuti due dei valori più sbandierati, salvo poi, naturalmente, venire posti sotto lo stretto controllo ideologico e sociale di noi adulti. Notevole il cast, che nella miglior tradizione della serie, si arricchisce con una serie di partecipazioni speciali, tra cui la Karen Black di Easy Rider e di Inferno in diretta e William Windom, attore di tanto cinema e televisione. Anonima la regia del già citato specialista in sequel Greg Spence (Prophecy II).

Gli adoratori del male

Colui che cammina dietro i filari sembra non aver estinto la sua sete di sangue e in questa ennesima produzione straight to video della Dimension se la prende con sei giovinastri (tra i quali c’è anche la Eva Mendes di Urban Legends 2) in viaggio attraverso i soliti campi di granturco infestati dai soliti “Figli del Grano”. Lasciamo allo spettatore il compito di scoprire come andrà a finire Gli adoratori del male (in origine Children of the Corn V: Fields of Terror), film tutto sommato accettabile, e cerchiamo invece di fare alcune riflessioni alle quali ci conduce la pellicola. Storicamente, è illuminista la figura del fanciullo puro e senza peccato che sarebbe il mondo a rendere malvagio, idea che una delle protagoniste trasforma in realtà con la prontezza e la mancanza di ripensamenti tipica della neofita, suicidandosi in una scena decisamente efficace; ma è possibile andare ancora indietro nel tempo, ben prima del ‘700, per cercare le radici del racconto di King e precisamente al detto greco di Menandro: “Muore giovane chi è caro agli dei”. Già gli antichi sapevano quanto è difficile mantenersi all’altezza dei propri ideali una volta entrati nella maggiore età. Il regista, Ethan Wiley, riesce a farci riflettere una volta di più sull’argomento e l’acrostico HELP che si legge sul libro della setta ha forse un’ampiezza filosofica che va oltre la pellicola: come aiutare i nostri ragazzi a diventare adulti senza divenire anche adulterati? O forse soltanto i puri possono aiutare i puri? Quel che invece indispettisce è il totale menefreghismo della Dimension nei confronti della continuity. Ogni episodio di Children of the Corn è una storia a parte che nulla ha a che vedere con i precedenti, né, plausibilmente, con i futuri (anche se nel capitolo sesto c’è una sorpresina), rischiando quindi di ripetere fino alla nausea situazioni e personaggi che faticano a trovare un loro pubblico di appassionati. Anche questa volta, come nel precedente, tra le cose migliori si devono segnalare i gustosi camei di Fred Black Cobra Williamson (nella parte dell’improbabile sceriffo) e David Kung Fu Carradine.

Children of the Corn 666: Isaac’s Return

Alla fine quelli della Dimension se ne sono accorti che la serie, arrivata al sesto capitolo, non poteva più procedere come se niente fosse senza fare i conti col passato. Il pubblico di appassionati (ammesso e non concesso che un tale pubblico sia mai esistito) era ormai stato portato allo stremo con cinque film fotocopia che proponevano idee ben poco originali, anche rispetto al raccontino di King. Ecco così l’idea geniale: resuscitiamo uno dei bambinetti del primo capitolo, quell’Isaac (John Franklin) figlio prediletto di Colui che cammina dietro i filari, che ha guidato la rivolta dei ragazzini di Gatlin e poi… e poi niente. Ce ne freghiamo di tutto e tutti e riproponiamo il solito film fotocopia che sciorina ben poche idee originali. Lo scenario è ancora quello della sperduta Gatlin, anche se dal massacro sono trascorsi ormai diciannove anni. Hanna (Natalie Ramsey) ritorna nella città dalla quale era fuggita ancora bambina, per scoprire se sua madre è viva o morta. In agguato ci saranno solo gli spettri di un passato mai dimenticato. Qui l’attende infatti Isaac, in coma da quel dì, con gli occhi aperti (!), per congiungersi carnalmente con lei e risvegliare il Dio del Granturco, da cui discenderà una razza superiore. A voler cavare sangue dalle rape (dato l’ambiente campagnolo), si potrebbero forse salvare l’idea del montaggio alternato fra Gabriel (Paul Popowich) e Hanna che fanno l’amore e gli orologi che suonano, più una stravagante ripresa dal basso d’una sorta di torretta. Nient’altro. C’è un po’ di tutto in 666, anche se l’ispirazione primaria è Rosemary’s Baby; e la sgradevole impressione che si ha è di assistere a qualcosa di già visto e rivisto. Per contrasto con questa pellicola consiglierei la visione di Guts of a Virgin di Kazuo Komizu, che tratta l’argomento della maligna concezione con ben altra capacità visionaria. Nel gioco delle guest star, questa volta tocca alla depalmiana Nancy Allen e a Stacy Keach.

Children of the Corn: Revelation

Jamie si reca a trovar la nonna (le somiglianze con Cappuccetto Rosso si fermano qui) che vive in uno stabile assediato dal granturco. Sulla porta dell’appartamento, un avviso di sfratto; di lei non c’è traccia, ma il luogo è abitato da personaggi piuttosto strani: un paranoico armato di tutto punto (un classico degli Usa), un drogato (un classico e basta), un furioso paraplegico con tanto di bandiere statunitensi sulla carrozzella e una prostituta (altro classico evergreen: tu mettila lì che a qualcosa prima o dopo servirà). I veri tipi stravaganti sono però due bambini e un misterioso prete. Da qui in avanti Children of the Corn: Revelation procede a fasi altalenanti: da una parte infatti sembra di trovarsi di fronte al solito film fotocopia, dall’altra, invece, alcune sterzate nel soprannaturale lo rendono perlomeno più curioso. I bambini, infatti, questa volta sono i fantasmi di quei piccoli reietti che tanta morte e distruzione hanno seminato nei capitoli precedenti. Come al solito, di continuity ce n’è ben poca e gli sforzi di 666 sono stati allegramente buttati nel gabinetto. Poco importa, ci siamo abituati e quel che conta è che questa volta la regia, affidata a Guy Magar (Stepfather III) cerchi soluzioni stilistiche meno banali e qualche volta terrorizzanti. Niente di trascendentale, ma perlomeno qualche bell’effetto speciale al sangue non manca. Notevole la morte in vasca della prostituta interpretata da Crystal Lowe che sfodera un topless da cardiopalma (poteva mai non venir punita per le sue tette?). Interessante notare anche che questo settimo capitolo presenta una reinterpretazione (forse casuale, chi lo sa?) di un virgiliano mito classico – quello di Polidoro, con le pannocchie che se snocciolate o addentate sanguinano in quanto abitate dalle anime infantili. Preoccupa una flagrante non meno che involontaria (ma la cosa è tanto più grave) “soluzione finale” per tutti i tipi di poveracci americani: lasciare che si scannino fra loro (ragazzi “puri” contro diseredati a vario titolo) e fare un bel rogo di quelli che restano con l’aiuto della polizia e dell’informazione. Se qualcuno ritiene troppo azzardata, troppo paranoicamente politicizzata questa interpretazione lo ammonirò con la stessa frase del prete alla protagonista atea: “Non offenderti, ma il Maligno non ha bisogno del tuo voto” e insieme gli consiglierò di dare un’occhiata al Principe.

Ah, dimenticavo, così come non esiste un primo, neppure esiste un ultimo, una conclusione, una fine, men che meno un fine (“La vita non conclude”, diceva Pirandello): dopo il citato Children of the Corn: Revelation, su di noi pioveranno altri remake, Campi insanguinatiChildren of the Corn (2009), Children of the Corn – Genesis (2011), Children of the Corn – Runaway (2018) e un reboot del 2020 (Children of the Corn)…

“Ah, dimenticavo” bis: è vero, l’autore degli articoletti sopra riportati fui io, ma la redazione di “Nocturno”, sul quale vennero a suo tempo pubblicati per la prima volta, fece tagli e aggiunte, quindi in un certo senso si tratta di un prodotto collettivo – e non di due, bensì di tre autori: al momento di riproporli su LA ZONA MORTA, infatti, sono intervenuto di nuovo anche su quanto aveva scritto il mio io del 2002, sia pure con piccole variazioni…

Insomma, il mondo è un gran casino, e la cosa più sensata che possiamo fare se vogliamo davvero conoscere qualcosa è rappresentare nella maniera più precisa possibile il caos, nostro e altrui.

Gianfranco Galliano