Quando mi occupai delle Streghe, le figlie di Vlore e Olaf, la decisione di confinarle in una parete di ghiaccio dell’Artico era già stata presa. Per quanto fossero stati ridotti in mille pezzi da Isadora, i due Stregoni erano eterni e forse potevano essere in grado di rigenerarsi. Pensavo che avrebbero potuto aver bisogno delle loro figlie e del loro potere, quindi nasconderle era davvero una buona idea. Mi aiutarono i miei fratelli: congelate e lucide, si trovavano all’interno di un blocco di ghiaccio, sorvegliate a vista da un kanut, uno dei nostri servitori. Una volta conclusa questa faccenda,tornai sul luogo della battaglia. C’era solo desolazione: nessun essere umano avrebbe potuto percepire il grande conflitto che si era appena concluso. Dell’esercito degli Stregoni non era rimasto niente, con un incantesimo Isa l’aveva dissolto nel nulla, ma io sapevo che c’era ancora qualcosa sul versante sulla collina di San Vigilio che andava cercato. Si diceva che gli esseri maligni avessero dentro del loro corpo quello che viene chiamato il Seme del Male e questo poteva valere sia per gli Stregoni sia per i membri del loro esercito. Ignoravo se questo cristallo potesse ricreare il suo spirito maligno e non sapevo nemmeno se Isa fosse a conoscenza della sua esistenza.
Setacciai palmo a palmo il campo di battaglia e trovai solamente due cristalli, quelli degli Stregoni, quasi seppelliti nel terriccio. Li raccolsi e, dopo averli ripuliti, me li misi in tasca. Era necessario nasconderli in un luogo sicuro.
Non avevo intenzione di avvertire Isa. Aveva fatto un buon lavoro ed era sicuramente provata, come le succedeva quando il suo strano potere prendeva il sopravvento. Sarei andata a trovarla, ma non entro breve tempo. Anche lei aveva bisogno di tornare alla quotidianità. Giunta al palazzo dell’Artico, mostrai ai miei fratelli i cristalli. Con la forza delle nostre menti scavammo un pozzo nel pavimento di marmo nero del salone e li nascondemmo dentro, avvolti in un panno rosso dentro uno scrigno di cristallo di gesso. Ci promettemmo che ogni tre settimane avremmo controllato i Semi del Male e che avremmo studiato un modo per distruggerli.
Anche i miei fratelli sono come me, anche loro sono eterni. Anche loro hanno la mia stessa origine. Eravamo spiriti e venivamo trasportati dai venti. Non ricordo molto di quel periodo: solamente quando i mari ribollivano, la terra si scaldava e si induriva, le nubi roteavano nel cielo. Ricordo anche quando i Durpazi, gli abitanti eterni dei ghiacci artici, ci richiamarono e ci permisero di incarnarci in statue di ghiaccio scolpite da loro. E’ così che sono…nata, così ho acquisito la forma che Isadora può vedere davanti a sé. Così sono diventata Shamandala. Benché riuscissi ancora a farmi trasportare dai venti, ho sempre trovato molto più divertente muovermi fra quelli che, apparentemente, sono i miei simili. Mi sono sempre spacciata per una fuggiasca o una strega, ho conosciuto molte vite, molti luoghi e molte storie. Quando Cesare venne pugnalato, io c’ero, spiavo Bruto che uccideva suo padre dall’ombra in cui ero nascosta e c’ero anche quando Clodoveo, il re dei Franchi, si fece battezzare dal vescovo Remigio. Fu più o meno in quel periodo che mi resi conto che esistevo perché avevo un compito e quando ne chiesi conto ai Durpazi mi spiegarono che dovevo stare accanto ad una persona, capostipite di un clan che avrebbe salvato l’umanità. Non mi diedero altre informazioni, avrei dovuto capire da sola chi fosse il mio protetto. Avevo tutto il tempo per trovarlo, così, semplicemente, mi mescolai tra i membri della tribù che avevo sempre osservato dall’ombra, predicendo fortuna e calamità. Quest’attività mi permise di vivere tranquilla all’interno della corte dei re che sono venuti dopo Clodoveo: penso di aver causato del rispettoso timore, visto che nessuno si è mai permesso di essere invadente con me. Il fatto che non invecchiassi mai e che non morissi non ha mai provocato grosse curiosità e guai, solo l’astio del confessore del re, che vedeva in me qualcosa di demoniaco. In tutto questo tempo la mia ricerca continuò sempre e pensai veramente di aver trovato la persona cui sarei stata accanto tutta la vita quando nacque Carlo. Era un bambino davvero sveglio, gioioso e vivace, l’unico che sembrava non avere paura di me. Alla morte di suo padre, Carlo divenne re: la sua fiducia in me non era mai venuta meno, tanto che dava più attenzione a quanto gli dicevo io che a quanto gli veniva detto dalla madre e dai suoi consiglieri. Per questo non mi sembrò così strano quando mi propose di seguire lui e il suo esercito in una campagna che si preannunciava impegnativa. Si trattava di usurpare un trono e Carlo mi voleva lì per potergli predire cosa fare e come farlo. Acconsentii a partire: a cavallo di un mulo, coperta da pelli di animali, seguii il mio re mentre valicava le Alpi per giungere in un luogo che tempo prima faceva parte di un grande impero. La meta da raggiungere era il palazzo di Desiderio, re dei Longobardi, e Carlo voleva ucciderlo, come voleva uccidere anche il resto della famiglia reale. Non gli importava che il sovrano fosse suo suocero: Desiderio era solamente una pedina che andava eliminata dallo scacchiere. Carlo voleva essere re di un territorio senza confini, addirittura diceva di voler diventare imperatore e voleva che la corona gli venisse messa in testa dal papa. Di questa sua ambizione non faceva mistero e io sapevo che sarebbe riuscito nell’intento. Ma prima di diventare imperatore doveva diventare re dei Longobardi. L’assedio dove Desiderio tentava strenuamente di difendersi durò per diverso tempo: i soldati di Carlo, stanchi e sporchi, stavano accampati sotto le mura di Pavia pronti a sferrare l’attacco finale, mentre Carlo interrogava i suoi consiglieri sul da farsi. Il re batteva i pugni sul tavolo, era necessario espugnare la città e sbarazzarsi del vecchio sovrano, i consiglieri studiavano le carte con una candela in mano. Io, nascosta nell’ombra, ascoltavo in silenzio. Non ho mai mostrato agli altri quanto provo: gioia, tristezza, noia. Agli altri non importa, sono sensazioni che riguardano me e mi hanno sempre aiutato a predire il futuro. Quella sera sentivo che la mia schiena era percorsa da brividi, una sensazione strana che mi faceva avere paura per quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Chiusi gli occhi e vidi davanti a me una scena infernale: l’esercito di Carlo che veniva sventrato, frecce infuocate, tizzoni ardenti lanciati dalle mura della città…mi feci avanti. Chiesi al mio re di potergli parlare e, dopo che gli riferii quanto avevo visto, lui prese la decisione di attaccare. Per quanto i suoi consiglieri non fossero d’accordo, Carlo pensò che mentre lui se ne stava tranquillo nella sua tenda, i suoi nemici si stavano organizzando da dentro le mura della città. Era necessario quindi agire, nel minore tempo possibile. Furono chiamati i generali e fu ordinato loro di preparare l’esercito e di attaccare, subito.
Mi ritrovai così nella battaglia: per quanto ne avessi viste altre, non ricordavo qualcosa di così sanguinoso e devastante. Vedevo intorno a me giovani cavalieri morire colpiti da pietre, da frecce, da colpi di spada. Era necessario per me aiutare l’esercito del mio re con un incantesimo, altrimenti la sconfitta sarebbe stata certa. Cercai d’appartarmi, rovistando nella mia sacca alla ricerca delle mie pietre magiche, quando qualcuno mi prese alle spalle, mi sbatté a terra insultandomi. Era uno dei consiglieri di Carlo, ferito, che mi accusava del massacro che si stava compiendo. Non seppi reagire e anche quando lui mi bruciò la lingua e mi tagliò le labbra con un pugnale io non reagii. Quell’uomo, disperato, voleva impormi il silenzio perpetuo, ma non gli riuscì, perché benché io non parli, mi faccio capire comunque molto bene. Lui non poteva sapere che ero, e sono, capace di intrufolarmi nella mente della gente e pensava di fare un favore al suo re, eliminando la strega che aveva causato tutto questo. Mi lasciò stordita in mezzo ai cespugli ma mi ripresi velocemente. Pregai i Durpazi affinché favorissero l’esercito di Carlo e poi mi incamminai verso la mischia.
L’esercito di re Desiderio, asserragliato sulle torri, tentava di difendersi dai cavalieri di Carlo, che avevano abbattuto il portone d’ingresso e iniziavano a penetrare nella capitale. Chiusi gli occhi. Vidi Carlo correre verso il palazzo dove era nascosto il vecchio suocero, con la spada sguainata, pronto a ucciderlo. Il sovrano stava seduto sul suo trono, circondato dalle figlie e da alcuni suoi fidati cavalieri che tentarono di difendere la famiglia reale dal cognato impazzito. Ad un tratto Carlo si fermò: lasciò cadere la spada a terra e chiuse Desiderio e la sua famiglia nella sala del trono, facendola piantonare dai suoi uomini. Aveva deciso di non ucciderli. Riaprii gli occhi decisa a andare da lui ma, ad un certo punto, la mia attenzione venne attirata da un giovane cavaliere dalla armatura bianchissima che urlava come un matto, poiché una freccia gli era entrata nella nuca. Era un ferita orrenda: l’uomo barcollava con la punta della freccia che veniva fuori dalla fronte, urlando e imprecando. Poi, con un gesto colmo di forza, quella forza che gli uomini possiedono nei momenti più difficili della loro vita, il cavaliere strappò la freccia dalla nuca. Barcollò ancora per qualche metro e poi cadde. Pensai che fosse morto. Non potevo perdere tempo con lui in quel momento. Era un’altra vittima della battaglia, una persona in più che si era sacrificata alla causa del suo re.
Non pensai più al cavaliere. Dopo la battaglia e la presa di Pavia, Carlo divenne re dei Longobardi come voleva e, tutto sommato, si mostrò di buon cuore con il suocero sconfitto: lo fece incarcerare in un monastero e nessuno seppe più niente di Desiderio. Dopo questa campagna era proprio giunto il momento di tornare a casa. Carlo era felice, confidava che il suo sogno di diventare imperatore non era lontano, anzi, giocando bene le sue carte, lo sarebbe diventato fra qualche anno. Era necessario tessere dei buoni rapporti con il papa e quest’ultimo non gradiva che questi ultimi fossero consigliati da fattucchiere. Carlo mi chiamò per parlarmi. Rimase inorridito dallo sfregio che avevo sul viso, ma questo particolare gli permise di cacciarmi dalla corte nel modo più veloce possibile. Fu chiarissimo: non poteva più contare sui miei servigi e non poteva farmi rimanere presso di lui, sapevo da chi era composta la corte, da persone talmente spregevoli che per tornaconti personali avrebbero venduto persino le loro madri. Non poteva rischiare di mettere in forse il suo progetto e aveva deciso di lasciarmi a Pavia. L’ultimo servigio che però mi chiedeva era di controllare un suo cavaliere, perché da dopo la battaglia si comportava in un modo piuttosto bizzarro. Non ero arrabbiata con Carlo, me lo aspettavo che le nostre strade si sarebbero divise. Mi spiaceva non potergli dire cosa pensavo e, per fargli capire che non serbavo rancore nei suoi confronti, acconsentii a vedere il suo cavaliere. Lo portarono su una barella, accompagnato da un frate, che pensava che fosse indemoniato: gli buttava addosso l’acqua benedetta ma quello non reagiva. Aveva sulla fronte una cicatrice orrenda e questa mi permise di capire chi avevo davanti. Feci uscire tutti dalla stanza: il cavaliere mi raccontò quanto gli stava accadendo, dei fortissimi mal di testa, dei temporali che glieli procuravano e degli spiriti che vagavano per le campagne. Aveva paura, pensava di essere diventato pazzo e mentre mi raccontava io finalmente capii qual era la missione affidatami dai Durpazi. Era quest’uomo il capostipite della famiglia che avrebbe salvato l’umanità!
Appena terminato il racconto, passai l’indice e il pollice sopra la cicatrice sulla mia bocca, in seguito passai le due dita sulla ferita del cavaliere. Ora poteva comprendermi. Caddi in trance: predissi che lui aveva il compito di catturare gli spiriti che girovagavano nelle terre dei vivi, che il suo dono sarebbe stato tramandato di generazione in generazione, che coloro che lo possedevano lo avrebbero manifestato durante i temporali e lo avrebbero perso raggiunta la maturità. Ci sarebbe però stato un discendente che avrebbe conservato il dono e avrebbe salvato il mondo dall’apocalisse. Aprii gli occhi. Tra me e il cavaliere si trovava una scatola di madreperla. Sapevo che sarebbe servita a portare a termine il suo compito e gli intimai di conservarla perché avrebbe accompagnato anche le generazioni successive. Non sapevo come si doveva usare e non lo sapeva nemmeno il cavaliere, che si chiamava Idropante. L’unica cosa che sapevo era che dovevo stare con lui, dovevo diventare la sua consigliera. Lui poteva capirmi senza che io parlassi e quando Carlo ripartì per la Francia, lui rimase con me in quello che era il vecchio regno longobardo.