LA SCALETTA A CHIOCCIOLA

Era buio, ma quella scala a chiocciola s’intravedeva ugualmente. C’era un raggio di luna sghimbescio che l’attraversava assecondando le sue tortuose giravolte… C’era un gioco di ombre e di luce che ne accarezzava i gradini, un po’ scoloriti dal tempo che non li aveva risparmiati.

Ero lì… Dopo innumerevoli anni che non vi tornavo ero lì, per un ben preciso motivo che soltanto io conoscevo.

Ed era stato così, appena il crepuscolo era naufragato nelle notte, lasciando però ancora una sua lieve eco di luce, che l’avevo visto.

Qualcuno stava salendo quei gradini…

D’impulso, più incuriosita che spaventata, salii a mia volta quella chiocciola in ferro battuto e, man mano che puntavo in alto, ne potevo ammirare in trasparenza le aeree tele di ragno che le dita del tempo vi avevano intessuto.

Finalmente raggiunsi la sommità e, scavalcando il breve pianerottolo, che dava da sempre l’impressione di cedere da un momento all’altro, mi ritrovai sul piccolo terrazzo/solarium che copriva l’ala aggiunta del mio piccolo nido campestre.

Lì non c’era nessuno…

“Come… Come è possibile?”, mi dissi. “Io l’ho veduto… Sono certa di aver veduto qualcuno salire quassù!”.

Ricordai allora come, con la coda dell’occhio, avessi afferrato quella sagoma alta e il lungo cappotto che indossava. Un uomo probabilmente, ma la fugace visione, afferrata di tre quarti, regalava contorni poco precisi per affermare qualcosa con assoluta certezza.

Decisi di rimanerne un po’ lassù e mi guardai intorno… Mi affacciai poi oltre il piccolo parapetto che limitava il terrazzo e guardai giù, tentando di penetrare con lo sguardo il giardino sottostante, dove soltanto il vialetto di ghiaia era ancora distinguibile. Fissai poi lo sguardo sulla corona di alberi ad alto fusto che dondolavano quasi impercettibilmente ad un lieve vento notturno che si era appena alzato. Giganti a guardia della montagna che svettava alle loro spalle

Non c’era nessuno… Lì non c’era nessuno… Eppure quel lembo di cappotto l’avevo realmente intercettato. Eppure avevo visto salire qualcuno su quella scala che veleggiava ormai tra i miraggi della notte.

Rientrai in casa e osservai quella corona di pillole che avevo lasciato sul tavolo di cucina.

Chi lo sa – mi chiesi – perché avevo dato una forma così vezzosa a quel rosario di morte a cui, con un gusto un po’ macabro, avevo posto persino al centro un piccolo fiore di seta scarlatta.

Con un sorriso, mi sedetti al tavolo, allungai l’acqua che avevo posto in un bicchiere con un po’ di limoncello, e mi apprestai a ingoiare la prima pillola, quando avvertii un lieve rumore provenire dall’esterno, come uno scalpiccio.

Mi precipitai fuori e avvertendo un leggero suono metallico, forse più una vibrazione che un reale suono, girai l’angolo della casa e mi diressi verso la scala a chiocciola, realizzata in ferro battuto.

Fu un attimo, un guizzo, una visione breve come un battito di ciglia, ma questa volta fu una gonna ciò che riuscii a intravedere… Come un ritaglio di stoffa scozzese.

Nuovamente salii la scala, seguendo il mancorrente per aiutarmi nel buio totale della notte.

Una volta in cima di nuovo non vidi nessuno… E nessuno era in giardino, tranne il vento notturno, divenuto più intenso, che giocava con l’altalena dei rami e il fremito delle foglie.

Con un vago senso d’inquietudine, che addebitai anche al particolare stato psicologico che stavo vivendo, tornai in casa e tornai a dedicarmi alla deliziosa coroncina mortale.

Una pillola… due pillole… e un lungo sorso di limoncello stemperato all’acqua, quando ancora una volta un fruscio metallico mi interruppe.

Trovai una vecchia bugia, con ancora inserito un mozzicone di candela e mi diressi per la terza volta verso la scaletta a chiocciola

Simile a un lampo cangiante di frusciante taffettà, scorsi l’orlo di una lunga gonna che mi parve un po’ fuori moda, retaggio di un tempo lontano.

Similmente alle volte precedenti non scorsi nessuno sul terrazzo, né celato tra le ombre del giardino o sospeso tra il dondolio degli alberi.

Questa volta attesi per un po’ ai piedi della scala… Nulla, tranne le bizzarrie che creano le ombre della notte, nulla di anomalo accadde intorno a me.

Rientrando in casa mi accorsi che il tempo pareva aver fatto un lungo salto in avanti rispetto a quanto immaginavo, come se qualcuno si fosse affrettato a mordere la notte per abbreviarne la durata.

Avvertiti anche un ticchettio, ma questa volta proveniva dall’interno della casa e potei rendermi conto che il vecchio orologio a pendolo aveva ripreso a battere senza che nessuno lo avesse caricato.

“Debbo affrettarmi”, mi confidai e afferrai la terza e la quarta pillola.

Questa volta il fracasso che mi giunse dall’esterno mi fece sussultare sulla sedia e corsi fuori a precipizio per smascherare una volta per tutte l’autore o gli autori di quello scherzo così inspiegabile e bizzarro.

All’inizio non vidi nulla, ma quei tre quarti di luna, ormai quasi al tramonto, quasi fosse divenuta d’improvviso un potente proiettore, concentrò tutta la sua luce su quella scala a chiocciola, mezzo divorata dalla ruggine e ciò che allora potei vedere fu sconvolgente…

Di nuovo vi salì l’uomo con il lungo cappotto, in cui potei riconoscere mio padre che avevo perduto da bambina. Poi, avvolta in una ampia gonna scozzese, riconobbi mia madre, dissolta ormai da molti anni, e infine, in quello strascico di gonna in taffetà, scorsi la mia nonna materna, da cui avevo ereditato quella vecchia casa.

Il cuore prese a battermi all’impazzata e mi diedi persino dei pizzicotti per essere sicura di essere sveglia.

Ma non era ancora finita: altre presenze, una dopo l’altra, affrontavano e scomparivano poi su per la scala e non stentai a riconoscerle. Ma il peggio – se “di peggio” poteva trattarsi – fu quello di ravvisare infine anche figure di persone che ritenevo fossero ancora in vita; due in particolare… due miei grandi amori che mi avevano fatto molto male e lasciato cicatrici indelebili.

Tutte quelle presenze che erano sciamate sulla scaletta, per perdersi poi nel nulla, prima di scomparire, avevano girato il volto verso di me e mi avevano sorriso teneramente.

Soltanto quei due uomini, ingannatori e predatori di sentimenti, più che un sorriso mi presentarono un terrificante ghigno.

Non so quanto rimasi ai piedi di quella scala… di quel monolito tortuoso, preda ormai dell’ora più buia che precede l’alba.

Ed ecco che, colorando la collina prospicente la casa, la vidi finalmente spuntare quell’alba che andò pian piano assumendo il colore delle viole.

Rientrai in casa… L’orologio a pendolo aveva ripreso la sua silente immobilità, ma le pillole erano ancora là ad attendermi.

Mi sedetti davanti al tavolo e presi il bicchiere, rigirandolo a lungo tra le mani:

«Mio rosario di morte», dissi accarezzando una a una le pillole rimanenti, «ora sta a me salire quella scala e unirmi a tutti quei defunti, e magari anche qualche demone… Oppure, interpretato il monito che hanno voluto rappresentare, rimanere qui, a salire le scale della vita con tutti i suoi gradini, scivolosi, sbrecciati, infidi, ma, a volte, anche piedistalli per salire in alto e puntare a mete gratificanti».

Il sole mi sorprese in una molle posa, con la testa adagiata sul tavolo, il bicchiere vuoto accanto a una mano, mentre le pillole sembravano scomparse: era il mio un sonno ristoratore o stavo accingendomi a salire quella vetusta scaletta a chiocciola?

Myriam Ambrosini