POCHE CASE IN CAMPAGNA

Dopo l’ennesima lite, me ne andai. Ero stufo di sentire sempre le solite recriminazioni. Sapevo già in partenza quali erano le mie colpe, era proprio inutile che tutti continuassero a rinfacciarmele. E poi vogliamo parlare della scena penosa che mi ero trovato davanti, con loro seduti intorno al tavolo ad aspettarmi? Mia sorella poi? Cosa ci faceva lei, che si è sempre disinteressata di me, specialmente dopo il suo trasloco in città? Davvero non capivo.

Sai, siamo tutti preoccupati per te, il tuo drastico calo nel rendimento scolastico. Perché ti sei chiuso a riccio e non esci più con i tuoi amici? E la tua fidanzata? Così carina, che le è successo? Perché non viene più qui?

Dovevo averli guardati tutti male. Io sfido chiunque però, a non detestare nell’immediato una combriccola di gente con cui hai la sfiga di condividere il sangue, che ti osserva in silenzio mentre tu vorresti solo mangiare, perché dopo hai l’interrogazione di Fisica da preparare. Sul tavolo c’era il mio piatto di pasta coperto con un altro piatto, il tovagliolo bianco sulla destra e sulla sinistra i miei voti scolastici dell’ultimo quadrimestre, che erano stati addirittura stampati, per renderli più reali e più dolorosi, evidentemente. Li guardai appena, quei voti, e presi la forchetta, scoperchiai il piatto ed iniziai a mangiare. La pasta era fredda e collosa, mentre masticavo sentivo il mio stomaco chiudersi e nel frattempo sentivo il lamento di mia madre che mi chiedeva conto della mia vita. Non risposi a nessuna delle sue domande. Non risposi nemmeno a mio padre, che arrivò a darmi un scrollata prendendomi per una spalla. Ignorai mia sorella che sbraitava, perché doveva fare la dura, visto che gli altri erano stati, secondo lei, dei mollaccioni che stavano crescendo un debole incapace di prendersi le proprie responsabilità. Io sapevo che c’era: ero stufo del liceo, dei miei compagni pidocchiosi, della mia vita di provincia. Stavo aspettando di finire la scuola, per poi trasferirmi lontano, magari all’estero, in una bella città universitaria con tante belle biblioteche antiche in cui sedermi e ammirare tutti quei volumi odorosi di vecchiume. Questi continuavano, per nulla scoraggiati dal mio mutismo. Finii la mia pasta, allontanai il piatto, bevvi un sorso d’acqua e mi alzai. Mi diressi verso l’ingresso, presi il mio cappotto e uscii di casa, nonostante loro. Le urla mi arrivarono prima dall’ingresso, poi dal vialetto, girai l’angolo e mi misi a correre nella nebbia che si stava abbassando.

 

Era un pomeriggio di gennaio freddo, il sole quel giorno non si era fatto proprio vedere. Corsi un bel po’, sentivo il cellulare vibrare in tasca, era mio padre che mi chiamava. Non risposi. Smisi di correre e imboccai una stradina che si staccava dalla via principale proseguendo verso la campagna. Amavo quella strada, era un’esplosione di colori e odori in qualsiasi stagione, uno di quei pochi posti che riuscivano a calmarmi qualsiasi fosse il mio livello di nervosismo. Mentre camminavo sul sentiero, sentivo l’odore del fumo che arrivava dalle cascine poco distanti, stavano bruciando sterpaglie e pezzi di legna. Il rumore dell’acqua del fossato che correva accanto al sentiero mi faceva compagnia e mi piaceva, speravo di essere libero così in un futuro molto prossimo: la luce cominciava a calare, forse sarebbe stato meglio tornare a casa, sentire un’altra lavata di capo, farmi mettere in punizione e ritirarmi in camera, perché un’altra insufficienza in Fisica non me la potevo proprio permettere.

 

Eppure. Eppure non potevo fermare la mia camminata: era come se qualcosa mi attirasse nel silenzio della campagna, camminavo sempre parallelo alla roggia e sentivo il freddo della sera e la nebbia che si facevano più fitti, fino ad avvolgermi e farmi perdere per qualche istante la bussola. Tutto era grigio intorno a me, ero dentro un banco di nebbia e il gelo penetrava nei vestiti pesanti, nelle scarpe. Continuai a camminare e mi trovai in un luogo che all’inizio mi sembrava di non aver mai visto: la roggia scorreva sempre al mio fianco in mezzo a delle case, il sentiero si era fatto una piccola strada che proseguiva in questa minuscola località di cui mi aveva parlato il nonno, quando era ancora vivo. Era un piccolo villaggio di quattro case che si era formato a metà strada fra due paesi più grandi ed era abitato dai contadini che durante la stagione agricola si insediavano lì, in modo da non dover tornare nelle case d’origine, spesso molto distanti. Era un luogo disabitato da anni, mi diceva il nonno, e io c’ero stato, una volta: ricordo di aver visto infissi marci, vetri rotti, stanze polverose e sedie ribaltate a terra. Le case, rosa e marroni, erano umide come l’aria che le circondava, il silenzio avvolgeva tutto dandomi l’impressione di trovarmi in un luogo fantastico. Continuai a camminare: alla fine della strada sarei tornato indietro, erano le cinque ed era ormai buio. Ad un tratto la mia attenzione venne attirata da un terrazzino sporgente sulla roggia: una piccola lampadina illuminava due donne sedute ad un tavolo, intente a bere caffè e a giocare a carte. Erano vestite con abiti leggeri, parlavano e ridevano fra loro, ignorandomi completamente e io avevo paura di disturbarle, se fossi passato accanto a loro. Non capivo cosa si dicessero, non capivo nemmeno perché non sentissero il freddo pungente della sera. Mi fermai all’ingresso di un vicoletto per poterle osservare senza essere visto, per poter origliare e cercare di capire a cosa stessero giocando. Si stava alzando una brezza portata dalla campagna, non potevo più sentire le loro voci e anzi, sembrava che le due donne non fossero neanche più sedute al loro posto. Uscii dal mio nascondiglio, mi avvicinai alla roggia per guardare meglio sul terrazzino, quando all’improvviso sentii una mano sulla spalla. Mi girai di scatto e una delle due donne mi osservava con la bocca spalancata, senza denti, e gli occhi fuori dalle orbite. Mi misi ad urlare, corsi via disperato, cominciai a frugare nella tasca per cercare il mio telefonino ma questo cadde per terra rompendosi. La donna mi era addosso, era velocissima, mi si avvicinava con la bocca e gli occhi spalancati come se volesse mangiarmi la faccia. Urlai, finii a terra anche io.

 

Ero caduto dalla sedia malamente. Avevo sbattuto la testa nella credenza della cucina e i medici del 118 avevano ritenuto che fosse necessario portarmi in ospedale. Mi avevano messo i punti, avevano deciso che sarei rimasto in ospedale qualche giorno per accertamenti, perché la botta era stata brutta e si erano spaventati tutti. Io non avevo voglia di parlare, mi sentivo strano, avevo mal di testa, ma a mia madre questo non interessava: seduta sulla poltrona accanto al letto, continuava con la sua lagna, offrendomi tutto il tipo di supporto necessario. Mio padre e mia sorella mi guardavano dalla porta, in silenzio. Io stavo lì, fermo, e osservavo la sera scendere anche nella stanza.

 

Erano andati via tutti e io cercavo di addormentarmi, anche se avevo male dappertutto. La porta era aperta e la fioca luce del corridoio illuminava la mia stanza. Fissavo la porta, pensando a tutto e a niente, quando ad un certo punto mi sembrò di vedere quella donna dalla bocca spalancata che correva in corridoio. Passando davanti alla mia porta mi aveva fissato, ne ero sicuro.

Roberta Lilliu