Doveva tener duro ancora qualche ora. Purtroppo quello sarebbe stato uguale a tutti i sacrosanti giorni in cui andava a scuola: Charles avrebbe incontrato Francis e Marius e… eccoli, lo stavano aspettando all’imboccatura del lungo corridoio! Il primo gli sparò un pugno alla spalla destra che l’avrebbe atterrato, non fosse che il secondo fece da contrappeso tirandogliene un altro di una potenza molto simile e contraria alla spalla sinistra: questo fu ancora più doloroso perché le nocche avevano colpito la carne in un punto morbido. Ancora una volta Charles arrossì di rabbia e faticò a trattenere le lacrime: sapeva di non poter reagire perché, se lo avesse fatto, una volta fuori le cose si sarebbero messe ancor peggio per lui: quei ripetenti erano dotati di una forza taurina, nessuno fra i ragazzi del quartiere osava metterglisi contro, figuriamoci lui, alto sì ma esile come uno stecco… Per fortuna arrivò l’insegnante e i due furono costretti a non prolungare quell’agonia da forche caudine. Se li avesse visti, sarebbe toccato a loro assaggiare la verga! Francis tuttavia, dopo un attimo di disappunto, sorrise beffardamente a Charles lasciandolo passare. Pessimo segno: l’ultima volta che era accaduto lo aveva sgambettato, lasciandolo lungo disteso alla mercé delle risate di Marius e dell’intera classe. Questa volta, però, non accadde niente: il maestro attendeva sulla porta che tutti entrassero in aula. Una volta seduti esclamò con voce stentorea: “Oggi che è l’ultimo giorno di scuola, vi voglio insegnare qualcosa che vi servirà molto il prossimo anno: come si usa il compasso”. Charles non fece in tempo a rallegrarsi una volta di più dell’agognato arrivo d’una data simile – fine scuola, festa nazionale per qualsiasi studente, figuriamoci per lui! – che sentì un improvviso dolore lancinante e profondo nel gluteo strappargli un grido soffocato. Sogghignando, Francis gli mostrò più volte che lui sapeva già usarlo, il compasso.
Il ragazzo giurò a sé stesso che quella sarebbe stata l’ultima volta che i due compari o chiunque altro l’avrebbe tormentato. Lo stato di estrema necessità gli fece aguzzare l’ingegno. Quel che non aveva avuto ben chiaro fino a quel momento, anche se in realtà era sempre stato lì, davanti ai suoi occhi, all’improvviso apparve evidente. Il velo si strappò e seppe con precisione come avrebbe usato il tempo che gli veniva benignamente concesso dalle vacanze: nonostante le sue gambe ad arco dovute al varismo, a scuola riusciva molto bene negli esercizi fisici. Bene, ma non abbastanza, non nel senso che adesso intendeva lui: quello della pura forza. Con l’altra forza che possedeva, quella di volontà, avrebbe mosso il suo corpo alla conquista di un nuovo obiettivo. Senza conoscer fatica o darsi tregua, flessione dopo flessione, sollevamento dopo sollevamento, arrampicata dopo arrampicata, corsa dopo corsa, catasta di legna dopo catasta di legna (fatta a pezzi come se ogni ceppo fosse stato Marius o Francis), il suo fisico, colto nel momento ideale in cui essere modellato (nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza), rispose presente, anzi gridò presente al rientro fra le mura scolastiche. La magia esiste: si chiama allenamento. Persino la sua espressione era cambiata, al punto che tutti lo accolsero come se si fosse trattato di un nuovo alunno. Né Marius né Francis tentarono di avvicinarglisi: come due animali sentivano che il nuovo maschio alfa del gruppo era arrivato e l’unica cosa che potevano fare se non volevano subire una vendetta immediata era girargli il più possibile alla larga. Quello non era più il capro espiatorio sul quale vendicarsi per noia, frustrazione o pura cattiveria, quello non era più la “cosa charles”, quello era CHARLES! Da ora in poi nessuno avrebbe riso neppure delle sue difficoltà col linguaggio, nessuno a cominciare da quei due balordi. Non usò alcuna pietà nei loro confronti, nello stesso modo in cui loro non ne avevano usato nei suoi: li affrontò entrambi a muso duro davanti a tutti e il risultato fu che, umiliati da qualche schiaffone in pieno volto, scapparono mentre lui li prendeva a calci nel sedere… lasciò andare Marius, ma non il perfido Francis: questi dovette sedersi sulle puntine che Charles aveva portato proprio per lui. Un’equa vendetta. Gli unici che avrebbero continuato a dire che era tardo ad apprendere sarebbero stati i suoi insegnanti, ma contro quelli purtroppo non poteva far nulla: la verità era che non ci vedeva troppo bene da distante e quindi avrebbe dovuto stare molto vicino alla lavagna; l’avevano detto anche i suoi genitori ai docenti, ma quei cretini non volevano capire. Negli anni ’40 non esistevano delicatezze di sorta o misure da prendere a favore di chi aveva problemi di handicap, fisici o psichici che fossero. Charles si consolava dicendosi che, pazienza, la scuola sarebbe finita, prima o poi…
…E la scuola finì, perlomeno la “Everett” Junior School. La sua famiglia era povera ma onesta, in casa non mancava mai l’essenziale (tanto è vero che Charles ne conservò sempre un buon ricordo, a differenza di quanto accadde per i suoi studi): insomma, un luogo equilibrato in cui crescere, ma il ragazzo – per ragioni che con ogni probabilità facevano parte della sua particolare personalità – non riuscì a essere per nulla equilibrato nella sua rinascita. Non vinse semplicemente, ma stravinse – e fu troppo; quando passò alle superiori, alla “Lincoln”, aveva ormai travalicato i confini del giovane a posto: non era riuscito a canalizzare le sue capacità di reazione al bullismo senza diventare bullo a sua volta. Del fatto che fosse andato ben oltre purtroppo si hanno testimonianze anche da parte di un suo amico, Robert von Busch: da un lato poteva essere estremamente gentile e divertente se riscuotevate la sua simpatia, ma dall’altro diventava estremamente crudele se si trovava di fronte qualcuno che in una maniera o nell’altra, magari per bellezza o altre qualità esteriori, risvegliava il suo senso di inferiorità, sopito ma mai del tutto estinto: in quel caso cercava subito di “ridimensionarlo”, ovvero di ridurlo idealmente alle dimensioni di una cassa da morto, dato che – secondo quanto dichiarerà più avanti – “I morti sono tutti allo stesso livello”. Come vedremo, non si tratterà solo di boutades para-filosofiche, purtroppo.
Nonostante i film e le canzoni a cui avrebbe dato origine la coppia formata da lui e dalla sua futura ragazza Caril, nel caso di Starkweather non ci troviamo di fronte all’arte che prende origine dalla vita quotidiana, bensì al contrario, come testimonia il personaggio a cui Charles volle ben presto rassomigliare: il Jim di Gioventù bruciata, quel ribelle che aveva tanto patito e nel quale si volle riconoscere fin dagli aspetti più esteriori del suo interprete (James Dean), dal taglio dei capelli agli abiti. Avrebbe potuto essere un semplice punto di partenza per costruirsi una propria personalità ma, se lo fu, lo fu solo in negativo: come dimentico delle notevoli doti che gli avevano consentito di reagire positivamente alle persecuzioni della sua infanzia appena lasciata, cominciò a coltivare una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti di qualsiasi compito la vita gli ponesse davanti: in sostanza non si sentiva in grado di riuscire a intraprendere qualcosa di positivo e condurlo a compimento. Questa forte sfiducia verso sé stesso gli fece abbandonare la scuola all’ultimo anno delle superiori e trovare l’unica consolazione, come spesso accade ai giovani, in una ragazza, Caril Ann Fugate, di cinque anni più giovane di lui. Scelse addirittura un lavoro umile, impiegato in magazzino di giornali, perché situato vicino all’istituto frequentato da Caril, cosa che gli consentiva di vederla ogni giorno. Non gli interessava minimamente come svolgeva la propria attività, tanto che il padrone disse in seguito di averlo ritenuto il peggiore dei suoi impiegati.
Uno dei momenti fondamentali per deviare verso l’assurda strada che Charles e Caril avrebbero preso fu l’incidente che la ragazza ebbe con l’auto di Starkweather dopo che questi le aveva insegnato a guidare. I danni furono notevoli e il padre del giovane li pagò ma in seguito, dopo le discussioni e i problemi che sorsero col figlio, lo cacciò di casa. Lasciato il lavoro per un’attività di spazzino a salario minimo, cominciò a pensare che la sua vita sarebbe stata per sempre esattamente quella che stava vivendo in quel momento, o forse quella di un fuorilegge, dato che spesso – mentre scopava le strade o raccattava rifiuti – fantasticava su ipotetiche non meno che improbabili rapine in banca. Come accade al novanta per cento dei serial killer o degli spree killer (è più questo il nostro caso) legati a una sola fissazione che li ossessiona e li incatena a sé, così anche lui non possedeva vie di fuga laterali, fossero pure perversioni eterogenee, interessi d’altro tipo che sorgessero d’improvviso prendendo il posto dell’omicidio, del tutto immotivato anche volendo utilizzare il più cinico dei profili economici come elemento scatenante. In poche parole, nelle vicende che lo videro protagonista non c’era nessun bisogno di ammazzare, se non per il gusto di uccidere per uccidere. Quest’ultimo non fu praticamente mai un mezzo, bensì uno scopo in sé. Nihilismo senza limiti e senza compromessi. Assassinii gratuiti come se ne trovano descritti nei libri esistenzialisti di Gide e Camus. Finzioni, quelle. Ma la valanga vera stava per scendere a valle. Occorreva solo trovare l’altra metà dell’amor fou, ovvero Caril Fugate.
Ma chi era questa giovanissima ragazza? Innanzitutto il contrario di una borghesissima amante che avrebbe stemperato l’avventura di Charles, pura e totalizzante ma mortale per tutti, in qualcosa di più accettabile. Venendo alla sua brevissima biografia, aveva avuto un padre alcolista che rese sia a lei che alla madre la vita difficile. Quest’ultima lo aveva lasciato per un uomo decisamente più equilibrato che era divenuto suo patrigno. All’apparenza, insomma, le cose erano migliorate, ma ciò probabilmente corrispondeva alla realtà soltanto in superficie. I traumi dovevano essere rimasti, e molto profondi, appena coperti da un po’ di cenere. Non si spiegano altrimenti le reazioni di Caril, che all’epoca fu la donna più giovane degli USA a essere processata e condannata per omicidio di primo grado, ai gesti assurdi di Starkweather.
Nel novembre del 1957, Starkeweather vuole acquistare a credito un animale impagliato per regalarlo alla sua ragazza, ma il venditore rifiuta a più riprese di darglielo sulla parola. I due vengono alle mani e Charles lo uccide con una revolverata alla testa. Poi confessa a Caril il furto negando però di aver ucciso il ventenne Robert Colvert. Dopo l’omicidio sa bene di aver superato un punto di non ritorno, di esser passato da un piano dell’esistenza a un altro: per colui nel quale ora si è trasformato – una sorta di superuomo alla Raskolnikov – un cadavere o mille sono la stessa cosa. Poco meno di due mesi dopo, si reca a casa di Caril; lei non c’è, nasce un litigio coi suoi genitori a proposito della relazione con la figlia che essi non vedono di buon occhio e lui li uccide a fucilate. Non basta: nella sua furia insensata strangola e pugnala la loro seconda figlia di due anni. Poco dopo, arriva Caril che incredibilmente aiuta il fidanzato a sotterrare i corpi dietro la casa. Per sei giorni, finché il lezzo di morte e la necessità non li spingono a fuggire, restano nell’abitazione tenendo a distanza chiunque con delle scuse, cosa che insospettisce la nonna della ragazza. Nel frattempo si dedicano a mangiare popcorn, guardare la TV e ovviamente fare l’amore. La loro fuga non ha scopo, vogliono soltanto lasciarsi alle spalle una serie di disastri e clamore prima di scomparire per sempre (dove?). Dapprima lui uccide un amico dei genitori della giovane, quindi la loro auto resta in panne nel fango. Fanno autostop e vengono presi a bordo da una coppietta di adolescenti del luogo: lui viene giustiziato nel solito modo, Charles cerca di violentare lei ma non ci riesce e allora altra esecuzione (secondo Charles perpetrata da Caril). Poco prima, Fugate ha puntato un fucile sulla coppia per derubarla di 4 (quattro) dollari e dopo il tentativo di violenza carnale sulla malcapitata e la sua uccisione, per gelosia postuma le assesta una serie di coltellate all’addome. Penetrano quindi in casa d’una ricca famiglia e sterminano la coppia e la loro cameriera (anche in questo caso Starkweather non mancherà di accusare in seguito la compagna). Rubano quindi parecchi gioielli e scappano con l’auto dei suoi defunti proprietari. Crimini a tutta birra, o meglio ancora – ma in questo caso non si tratta di un modo di dire – come se non ci fosse un domani. I due infatti non si concedono mai neppure un attimo per pensare: l’inno alla velocità è totale; d’altra parte qual è la differenza fra una carezza e uno schiaffo? Proprio la velocità, unica dea futurista della coppia di criminali! Mentre vengono identificati e si è sulle loro tracce sono già a 500 miglia di distanza, fanno un salto dal Nebraska allo Wyoming, pronti a salire sull’auto di un venditore di scarpe che sta facendo la siesta: Starkweather lo ripaga della gentilezza con nove pallottole nel cranio. (Quanto a delirio per temporalità accelerata e iperattività, sia pur criminosa, ci troviamo in pieno Snake Agent di Tamburini, non fosse che questo è un fumetto degli anni ’80). Mentre scoppia una lite fra il criminale alle prese con l’auto che si è spenta e un motociclista che tenta in tutta buona fede di aiutarlo, un poliziotto ferma la propria macchina; Caril, fingendo di essere in preda al panico fugge verso di lui e l’assassino riprende la marcia schiacciando sull’acceleratore fino a raggiungere i 160 all’ora: è l’ultimo eccesso di velocità. Dallo scambio di colpi che segue con l’agente, infatti, esce ferito. Sono occorsi quattro giorni per arrestare i due innamorati folli. Forse ne occorreranno ancor meno perché comincino ad accusarsi a vicenda: Charles inizia sostenendo che, come dice Caril, è stata presa in ostaggio da lui, poi ritratta affermando esattamente il contrario, ovvero che lei è stata per intero sua complice e “la pistola più facile che avesse mai incontrato”. Condannato a morte, fu – manco a dirlo rapidamente proprio come lo erano stati i suoi delitti – ucciso sulla sedia elettrica nel 1959, a vent’anni. A propria difesa, Fugate afferma che Starkweather le aveva detto di tenere in ostaggio la sua famiglia e che se lei avesse eseguito i suoi ordini non sarebbe accaduto nulla ai genitori e alla sorellastra; la ragazza ammette solo di aver impugnato un fucile contro la coppia di adolescenti che li aveva raccolti mentre facevano autostop. La sua versione viene rigettata sia a causa dell’episodio del fucile, sia soprattutto per il fatto che nel corso della sua cosiddetta “prigionia” aveva avuto l’opportunità di fuggire, ma se ne era ben guardata. È così condannata all’ergastolo. Rilasciata sulla parola nel 1976 per buona condotta dopo 18 anni di detenzione, ma non graziata, oggi è in buona salute e ha cambiato nome.
Gianfranco Galliano
A proposito dei vecchi compagni di scuola di Starkweather: nel frattempo Marius e Francis hanno continuato a vivere tranquillamente le loro esistenze di sadici in pectore. Se vogliamo, e sia pure con un gran volo pindarico, tutta la storia suona un po’ come la fine della II Guerra Mondiale: con il lancio della bomba atomica, gli americani fecero passare i giapponesi quasi dalla parte delle vittime così come Charles, con i propri omicidi, fece diventare quasi degli angioletti coloro che lo bullizzavano. Ma soprattutto la vicenda offre una terribile spiegazione storica, sia pure remota e inconscia, al nihilismo dei serial e degli spree killer, assassini nati come molti altri a partire da loro: “La storia dell’umanità, così come la conosciamo, è un interminabile susseguirsi di guerre d’invasione e di sterminio. Quel che fa la differenza fra il passato e l’epoca nucleare, è che tutto il mondo è esposto alla minaccia nucleare. In passato, si poteva contare sulle proprie armi, sul proprio coraggio e sulla propria forza per sopravvivere. Ma eccoci confrontati a un pericolo contro il quale non si può far altro che scavarci un buco, ricoprirlo e pregare aspettando che l’atmosfera diventi respirabile. Non possiamo nulla, ciò sfugge alla nostra comprensione e alla nostra volontà. È un effetto castrante. Attraverso la sua iconografia e le sue meraviglie tecnologiche, il nucleare è il simbolo del nihilismo. Non esistono più eroismo, né coraggio né onore. Il nihilismo non è altro che la negazione di tutte le fedi (o di ogni certezza). Il nihilismo della Guerra Fredda è un fattore principale del malessere spirituale che ne è scaturito.” (RN Taylor, “The Process Church Of The Final Judgement”, Esoterra). Per i Charles e le Caril, quindi, tanto vale distruggere tutto e autodistruggersi, sappiano o meno i motivi soggettivi e oggettivi della loro carica di ferocia. Il punk col suo “no future” non ne sarà che un dichiarativo e triste epigono.
Per chi volesse saperne di più…
Innanzitutto, citando da Une série de tueurs di Axel Cadieux, che si occupa per un capitolo del film Natural Born Killers (1994) di Stone, possiamo trovare alcune chicche: nel giugno del 2006 l’opera che più di ogni altra celebra Starkweather & Fugate viene piazzata dalla rivista Entertainment Weekly all’ottavo posto fra le pellicole più controverse d’ogni tempo. “Ebbe un tale impatto da venir accusato d’aver ispirato una serie d’uccisioni” direttamente: due ventenni (maschio e femmina) dopo aver visto il film sotto effetto di LSD, ammazzano un individuo e ne rendono paraplegico un altro. Quest’ultimo fa causa al regista e alla Warner, che verranno definitivamente assolti soltanto nel 2002. In maniera più indiretta si fa riferimento a diversi altri crimini, fra cui la strage di Columbine (1999). “A oggi, i realizzatori del film hanno subito diversi processi, ma non sono mai stati condannati. Curiosa interferenza fra finzione e realtà. Natural Born Killers, accusato d’essere all’origine di una serie di omicidi, è esso stesso ispirato” alla realtà ricostruita nel nostro pezzo. Oltre che del già citato James Dean, Starkweather era un fan di Elvis Presley e i due ragazzi di Lincoln furono spree killers sovramediatizzati come accadrà – fra gli altri – a Richard Ramirez, John Wayne Gacy, Ted Bundy, ecc. Una differenza notevole dei fatti nudi e crudi rispetto alla finzione è che nel film “rimangono innamorati l’uno dell’altra, sono solidali e finiscono per fuggire allo scopo di fondersi nella natura” (un po’ come accade nella dannunziana “Pioggia nel pineto”?) “conferendo a Natural Born Killers un tocco romantico e profondamente immorale che è in particolare all’origine dei processi che gli sono stati intentati”, ma che aggiunge anche una connotazione particolare al Natural del titolo. Molto prima di Oliver Stone, il caso aveva già avuto vasta eco in territorio cinematografico come fonte di ispirazione con The Sadist (1963) di James Landis, pura exploitation; La rabbia giovane (1973), primo film d’autore di Terrence Malick (con Martin Sheen, Sissy Spacek e Warren Oates); Stark Raving Mad (1981), poliziesco di George F. Hood; Kalifornia (1993), road thriller di Dominic Sena (con tanto di Brad Pitt e Juliette Lewis nel cast); Murder in the Heartland – Senza movente (1993), interessante miniserie televisiva diretta da Michael O’Hara e interpretata da Tim Roth e Fairuza Balk. Dopo NBK, ecco Sospesi nel tempo (1996) di Peter Jackson, una sorta di commedia horror con Michael J. Fox e Trini Alvarado, “Il tredicesimo passo” della serie televisiva Criminal Minds e infine Starkweather (2004), ovviamente un biopic, di Byron Werner. Starkweather e Fugate sono stati considerati una variante più contemporanea di Clyde Barrow e Bonnie Parker (sui quali non manca un ottimo film di Arthur Penn del 1967, Gangster Story). Nel 1992 Springsteen consacrò ai due di Lincoln (e usando la prima persona nel racconto degli omicidi!) una canzone: “Nebraska”. Last but not least, Zodiac stesso (sì, proprio il serial killer mai acchiappato) scrisse a suo tempo una lettera al San Francisco Chronicle censurando le buone critiche che il film di Stone aveva ricevuto dal quotidiano, firmandosi nell’occasione “un cittadino indignato”: “e geloso?”, aggiunge Cadieux; o semplicemente ironico? In ogni caso l’episodio del pluriomicida che si lagna pubblicamente è proprio quel che i nostri vecchi avrebbero definito “un’americanata”.