GASLIGHT

In omaggio all’omonima pellicola del 1944,

regia di George Cukor

Le mie emozioni si fecero cupe, come se un inesorabile imbrunire avesse sorvolato sulla stesa dei miei giorni, prima felici. Mi ritrovai a riporre il mio cuore dentro una murata, nuovamente, e a prepararmi alla guerra di logoramento.

Andiamo con ordine, per quanto mi è consentito.

Il mio nome è Marialuisa. Incontrai Dante in un sito di incontri, quando mi trasferii al nord per lavoro. Era l’ennesimo dei miei traslochi. Abitare un monolocale nel centro di una città grigia non agevola l’umore. Sprofondai per giorni in una letargia che mi dominava nei periodi di transizione.

Provenivo da un anno travagliato. Lo sprofondo è la cavità in terreni alluvionali, ai piedi di rocce calcaree. Dante permise il mio ritorno alla pianura di luce. Riemersi prima che la mia anima annottasse del tutto.

Dedicai a Dante tutte le mie energie e fui ricompensata da un effluvio di elogi e attenzioni. Ero per lui una dea pallida, rara, in controluce. Lo sommersi di attenzioni e di emozioni e ne fui ricambiata. Un sole transitorio.

Fu quando andammo a vivere insieme che emerse la sua doppiezza. Nonostante fosse a conoscenza delle cattiverie subite ad opera del mio precedente fidanzato, prese ad accusarmi di freddezza. Ripeteva come un bambino ferito che gli avevo mancato di rispetto in quella e quell’altra occasione.

Negli spazi comuni non ci trovavamo a nostro agio: Dante disponeva con acribia i suoi indumenti puliti negli armadi; al contrario, io tolleravo un certo disordine nei cassetti.

Prese a dire che gli avevo spostato oggetti e indumenti. Facevo di tutto per convincerlo del contrario.

Dopo i litigi, saltuariamente e solo quando veniva a porgermi le sue scuse, cercavo di portare solarità nel rapporto agevolando momenti intimi che lo eccitassero: ho sempre amato i vestiti da notte in pizzo e organza e Dante perdeva la testa quando li indossavo.

Ma le cose scesero ancora: iniziò ad accusarmi di avere conversazioni segrete con altri uomini sulle messaggerie telefoniche. Ma si trattava solamente di spasimanti che cercavano con ogni apprezzamento di ricevere briciole da me! Null’altro. Presi a negarmi fisicamente. Avevo paura di lui, delle sue reazioni.

Un’ombra agitava le scure giornate d’inverno: si affacciava il timore di essere osservata, di essere pedinata. Gli spostamenti da casa all’ufficio, che effettuavo attraversando un grande parco pubblico in penombra, divennero occasione di spasmo interiore. Non era la prima volta che mi sentivo in trappola e Dante lo sapeva bene. La mia migliore amica era arrivata a minacciarmi con un coltello. Era una ragazza bruttina che voleva condividere tutto con me, ma era invidiosa della mia vita e aveva escogitato di prendere il mio posto. E Dante ora giocava con i miei buoni propositi.

Le liti in casa divennero all’ordine del giorno. Mi accusava di ribaltare la realtà dei fatti, di essere una bugiarda seriale. Continuava a insinuare che avessi spostato oggetti e indumenti nelle camere. Inestricabili fili ci legavano.

Non fu di alcuna utilità coinvolgere un’amica comune, che avevo preventivamente informato della preoccupante situazione in cui mi trovavo. Dante in un primo momento si sentì in colpa, provò un forte dolore. Poi ripresero le accuse.

Fu durante il periodo di quarantena che le cose precipitarono. L’obbligo di vivere a stretto contatto perenne mi paralizzò. Mi negai sotto ogni forma, per quell’uomo non provavo più nulla. L’avevo mai provato? E per gli altri prima di lui? La mia vita una camera senza soffitto. Dante non si lavava più. Mi sequestrò il telefono cellulare.

Una notte, durante una lite in cui confessai che per lui non avevo mai provato alcun sentimento, prese un coltello. Nella semioscurità della camera da letto mi si avvicinò e disse che mi aveva dato tutto il suo amore e che non accettava di essere scartato così. Un urlo di disperazione mi salvò. Vennero i carabinieri. Quel pazzo venne portato in caserma.

Nelle stanze vuote ritrovai un velo di pace. Anche Dante si era rivelato per quel che era: un folle, un invidioso, un mostro. Come il mio precedente fidanzato, come la mia migliore amica.

Avrei presto fatto le valigie: una nuova città mi attendeva. Avrei trovato qualcuno di normale, finalmente, disposto ad accettare la mia luce?

I componenti della Famiglia Manson nei crimini compiuti durante la fine degli anni Sessanta entravano nelle case senza rubare nulla, ma spostavano i mobili per turbare i residenti.

Victor George Bishop, Witness To Evil

Daniele Vacchino