LA MALEDIZIONE DI PAOLO LEVI

Risulta necessario interrogarsi sul rapporto che alcuni autori hanno avuto con il genere giallo. Esiste un certo connubio tra la meccanica logica tipica del giallo e l’elaborazione artistica. Il breve romanzo giallo inteso come una stilizzazione del gusto letterario.

Piero Chiara, con il suo celebre “I giovedì della signora Giulia” contemplò un giallo classico in cui il finale svelava gli intenti segreti dell’autore. Al termine della lettura, il lettore si sarebbe imbattuto in una grossa delusione: avrebbe scoperto che l’intrigo non era altro che finzione. Il messaggio finale era chiaro: ribaltare i rapporti canonici tra scrittore e lettore. Lo scrittore si sarebbe sottratto all’impegno cerimoniale di consegnare al lettore un’epifania della verità, con tanto di colpevole e movente. Sull’altare del puro gusto letterario veniva così sacrificato il patto tra autore e fruitore. Per abbracciare una platea più ampia, rappresentata dal pubblico televisivo in occasione della riduzione a sceneggiato Rai, Piero Chiara non si poté esimere dal compito canonico: la trama con scioglimento dell’enigma, però, deluse Chiara, come testimoniato da Federico Roncoroni nella Nota al testo di “Due ipotesi per la scomparsa del prof. Tagliaferri”.

“Saluti notturni dal Passo della Cisa” vede il ritorno di Chiara sul sentiero della dissoluzione della verità, sul ripristino del mistero come entità da preservare, da mantenere intatta. Il messaggio finale che il narratore lancia è simile a quello messo in scena dal celebre regista nipponico Akira Kurosawa (uno che inventò più di un genere, che diede il via a più di un sotto-filone narrativo) nella pellicola “Rashomon”.

Mi sono interrogato più volte sull’ossessione, simile a quella che aveva Alberto Arbasino per le sue opere, per un libro che ho scritto e riscritto più volte. Ho contato dieci riscritture diverse dello stesso testo. Il titolo di quel libro è “La pinacoteca delle copie”. Se nella struttura generale è un omaggio al Piero Chiara dei gialli senza soluzione, il contenuto non potrebbe essere più distante. Nella sua essenza, il testo affronta la tematica del falso artistico, ma non si limita a farlo a livello di contenuti. Mostra su carta la possibilità che la contraffazione offre: presentare un prodotto identico, ma il cui contenuto suggerito è differente. E non è un tema affrontato a caso. Infatti, proprio il dilemma della produzione in serie, che è il contrario dell’originale artistico, si adatta al genere giallo.

A quante saghe poliziesche la letteratura popolare ha dato seguito? I famosi commissari e ispettori privati che tanto hanno contribuito alla creazione della cultura popolare: Sherlock Holmes, Miss Marple, Poirot, Maigret, Montalbano… Cosa sono stati quei libri gialli se non una produzione in serie? È un fatto che colpisce, rinvenire che, all’interno del genere in cui il principio stesso di autorialità è stato messo maggiormente a repentaglio, molti autori abbiano plasmato le forme di quel genere inflazionato e, per certi versi, abusato, per estrarne un prodotto la cui essenza è di natura assolutamente diversa.

Quale elemento accomuna Carlo Emilio Gadda, Piero Chiara, Umberto Eco, Fruttero & Lucentini, Leonardo Sciascia (per citare i più noti)? Il fatto di aver adoperato gli stilemi del genere giallo, ma di averli utilizzati per recapitare al lettore un messaggio che valica il genere. Il tutto eseguito con gusto letterario. Messaggio unico, forma letteraria: ecco le due componenti che ristabiliscono il principio autoriale dell’opera artistica. Per questo, nella mia ottica, quando scrissi “La pinacoteca delle copie”, era di vitale importanza giocare sulla linea del falso artistico dell’opera di Piero Chiara, instillando nel lettore il dubbio se la mia opera fosse un originale o una copia. Tra gli autori che lessi in quel periodo e che considero tra i miei maestri del filone giallo, o almeno di quel modo letterario di cui abbiamo finora discusso, si trova una penna finita tristemente nella polvere dell’oblio. E a torto. Si tratta di Paolo Levi.

Quel che mi ha convinto all’idea di avviare un’opera di restauro della sua immagine e del suo ricordo è il fatto che, in un’epoca dominata dal link testuale, un autore che ha lavorato con tanta fortuna nella narrativa non possieda ad oggi un link alla propria biografia che superi le tre righe, né un articolo che sintetizzi il suo operato.

Ma c’è di peggio.

I link al suo nome per le sceneggiature delle sue opere ancora oggi più celebri (“Ritratto di donna velata”, forse uno dei più eleganti sceneggiati Rai e “L’assassino ha riservato nove poltrone”), rimandano a un altro autore. Un caso di omonimia. Si tratta del Paolo Levi critico d’arte. Il cognome Levi non ha giocato a favore del ricordo. Il Paolo Levi che interessa a noi in questa sede è nato a Genova il 20 luglio del 1919 ed è morto nel 1989. In letteratura ha scritto sei romanzi, di cui cinque gialli esistenziali. La sua produzione ricorda da vicino quella di Italo Svevo. Se l’autore triestino ha speso la sua carriera autoriale nel tentativo eterno di riscrivere lo stesso libro, Paolo Levi è uno degli autori che lo ricorda di più. Due delle sue opere hanno avuto la ventura di ricevere un adattamento cinematografico o televisivo, a cui l’autore stesso collaborò in qualità di sceneggiatore. Si tratta di “Delitto in piazza” e “Ritratto di provincia in rosso”. Al primo spettò uno sceneggiato Rai lento e di grande atmosfera, mentre al secondo un film (introvabile, in linea con la maledizione) avente per protagonista Ugo Tognazzi e dal titolo “Al piacere di rivederla”.

I romanzi di Paolo Levi sono dei gialli eleganti e borghesi, che tratteggiano la vita di provincia. All’interno delle sue storie compare sempre il fantasma dell’amore: i suoi protagonisti sono tormentati dalla passione per donne più giovani, irraggiungibili, o scomparse. Gli intrecci sono pervasi da un senso depressivo di dissolvenza. Si indaga su fantasmi che rivisitano le case che hanno lasciato, su misteriose telefonate notturne che sembrano provenire da mondi remoti in decomposizione. Vi domina un gusto squisito per l’affresco di costume, per il fraseggio ampio ed elegante, per i dialoghi in punta di fioretto.

In “Un agguato una sera al mare”, Levi disegna i contorni rarefatti di un amore estivo, che viene stretto dal laccio sinistro di un inganno.

Tutti libri fuori catalogo, tutte opere da mercatino delle pulci, rimasugli di rigattieri, scarti di mercatini.

“Le mosse sbagliate” è un’indagine monca e arzigogolata, sul confine con il grottesco.

“Tentativo di corruzione” sfiora il tema del complotto, che aleggia anche negli altri libri.

Perché ad oggi sarebbe importante riscoprire un autore come Paolo Levi? Direi almeno per tre motivi. Per un senso di giustizia e di attribuzione autoriale. Perché si tratta di un autore che sa scrivere. Perché è un autore che ha saputo costruire un suo mondo, in cui emergono i tratti della sua personalità, i quali, sebbene siano oggi irraggiungibili a causa del vuoto d’aria costituito dall’assenza di un apparato critico in suo favore, risultano comunque reperibili attraverso le sue opere. E sono: l’aspra paura nei confronti del mondo; la tendenza alla paranoia e alla depressione; il tentativo di ritrovare se stesso all’interno di un mondo riordinato grazie alle regole rincuoranti del giallo classico; il tentativo di costruire un universo privo di urti e contrasti e identificabile in un cosmo provinciale e borghese, ben rappresentato dalla figura di Mario Aldara interpretata da Ugo Tognazzi; l’ossessione per amori transitori ma avvolgenti nei confronti di figure di donne svanenti; l’amore viscerale per la provincia cronica, per i luoghi appartati e per i momenti di requie rappresentati dalle vacanze in riviera; il costante duello tra il desiderio di una vita condivisa con una presenza femminile e un’esistenza solitaria.

Daniele Vacchino

(pubblicato originariamente sulla rivista on line “Mattatoio n. 5”)