GOMORRA: VIRTÙ E FORTUNA DI CIRO IN SPAGNA

Il testo che segue commenta l’episodio Roulette spagnola (Gomorra, prima stagione, sesto episodio). Soggetto di puntata di S. Bises e L. Rampoldi, sceneggiatura di S. Bises, regia di S. Sollima. 

“E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di questa due cose mitighi in parte di molte difficoltà” (1); “non di manco, colui che è stato meno sulla fortuna, si è mantenuto di più” (2).

Quando Ciro Di Marzio viene inviato in Spagna per concludere un accordo con Salvatore Conte, che la cosa gli metta paura è del tutto evidente e legittima: tempo addietro, infatti, ha incendiato la casa di sua madre; il boss sa perfettamente chi è stato e dunque aspetta soltanto di averlo fra le mani per potersi vendicare. Tuttavia tocca proprio a Ciro incontrarlo perché il capoclan è in galera (la moglie è al momento la reggente della cosca) e suo figlio deve recarsi personalmente in Honduras per aprire una nuova via allo smercio di droga. Sapendo quel che rischia, legge forse già una metafora del suo destino funesto nel momento in cui l’autista venuto a prenderlo all’aeroporto di Barcellona, una volta riconosciuto, cestina il foglio col suo nome. In seguito riesce a farsi recapitare nei bagni dello scalo, proprio sotto il naso del suo sospettoso ospite, una pistola e su di essa punta la propria attenzione, mentre lungo la strada per l’albergo ha una percezione solo subliminale dei manifesti di candidati alle elezioni locali messi in bella mostra un po’ dappertutto. La virtù rappresentata dall’arma, astuzia grossolana a dire il vero (più una sicurezza psicologica che reale per fronteggiare un’intera banda), in quest’occasione si dimostrerà una scelta del tutto inappropriata: per una volta, la formula secondo la quale “tutti i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorono” (3) appare fallace. Nello stesso modo risulta fuori luogo la strategia di farsi cambiare stanza d’albergo per l’inutile, e anche in questo caso prevedibile, sospetto che i camorristi avversari lo uccidano entrando di soppiatto in una suite della quale già hanno la chiave: il boss, molto più crudelmente raffinato di quanto pensa Di Marzio, vuole solo farglielo credere chiudendolo per un’intera nottata nel nuovo alloggio, così da tenerlo sveglio e sulle spine per un attacco che non arriverà mai, cosa che gli riesce alla perfezione.

Accolto – si fa per dire – sullo yacht di Conte, l’uomo dei Savastano sente fin da subito la trappola richiudersi intorno a lui. Una volta in alto mare, la prima cosa di cui è privato con estrema facilità è proprio l’arma; quindi viene gettato in acqua mentre il capocosca gli urla in faccia che deve morire per quel che ha fatto a sua madre. In mezzo alle onde fredde, solo e disperato perché nel deserto liquido non riesce più a distinguere la direzione del mare aperto da quella della riva, il camorrista nuota fino a quando Salvatore – dopo averlo tenuto a mollo per il tempo necessario a persuaderlo che perirà annegato – manda alcuni dei suoi uomini a ripescarlo. Come in una pena dantesca, il capobanda usa l’acqua per tormentarlo, contrappasso antitetico al fuoco utilizzato dal nemico.

La sera, in un locale di Salvatore, questi gli ricorda che ora sono quasi pari. Ciro, deviando il discorso, viene al sodo: lui ha la droga, ma i Savastano gli spacciatori e i punti di spaccio; basta che si uniscano ed entrambi ci guadagneranno; Conte, beffardo, non si pronuncia sull’offerta. Mentre va in bagno, viene seguito da un esponente della mafia russa che lo minaccia, ma proprio il negoziatore riesce a far intervenire in tempo i suoi guardaspalle: “sanza quella occasione la virtù dello animo loro si sarebbe spenta” (4). Per disprezzo e punizione il capo non uccide il russo, ma gli orina addosso (5). I due subiscono quindi un agguato da parte dei gangster di Eremenko dal quale solo la fortuna li salva. In seguito don Salvatore ordina a Di Marzio di concludere con essi un affare che dia il 60% ai napoletani e il 40 ai mafiosi dell’Est: in questo modo le cose fra loro saranno pari e accetterà l’offerta dei Savastano. Pur sapendo che è un’impresa impossibile, Di Marzio sa di non aver scelta: se rifiutasse, lo ucciderebbe il boss. In dialetto o in lingua straniera, la sostanza per lui non cambia. Mentre viene condotto all’incontro come al patibolo (sensazione già provata giorni prima andando da Salvatore), vede di nuovo i manifesti dei candidati alle elezioni regionali, ma in questo caso con la piena coscienza di ciò che ha sotto gli occhi e il cervello si mette in moto: la vera virtù, funzionale al suo caso, stavolta è all’opera, “e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano” (6); in fretta e furia scrive qualcosa su di un foglio. Nella sua mente il discorso si sta già componendo, anzi è già fatto: non ci vorranno troppe parole per cercare di persuadere l’altra parte – in fin dei conti sa di essere il più astuto venditore su piazza.

Quando si trova di fronte a Eremenko gli mostra quanto ha scritto: i nomi di alcuni candidati, nient’altro; poi – quando il suo interlocutore gli chiede che vogliano dire – è pronto per declamare la sua poesia:

Sono

quelli che vinceranno le prossime elezioni municipali,

quelli che decideranno che cosa costruire e a chi farlo fare. Insieme ai tecnici

                 delle commissioni edilizie,

                 delle concessioni governative,

a quelli dei lavori pubblici.

                                           Noi li conosciamo

a tutti quanti.

                                           Noi li paghiamo

a tutti quanti.

Insieme a loro, qualsiasi lavoro

                         qualsiasi progetto

sta già in autostrada.

Senza di loro, vi potete comprare tutti i terreni che volete… Ci costruite dopo

10 anni. 50 e 50.

Le nostre amicizie qua diventano pure le vostre.

Nella prima parte risuonano le anafore (“quelli che”, “delle”, “qualsiasi”; a volte alternate: “noi li”, “a tutti quanti”), mentre nella seconda arriva il motto lapidario metaforico-iperbolico (“Insieme a loro, qualsiasi lavoro, qualsiasi progetto sta già in autostrada”) e infine i decisivi numeri – le sole cose che le mafie comprendono. (La brevissima analisi vale ovviamente per lo spettatore italiano, ma – se proprio si vuol essere iperverosimili – alle orecchie di Eremenko risulteranno efficaci anche in traduzione russa quantomeno le anafore e la dispositio.)

A suo modo, il discorsetto ricorda quello grazie al quale l’Ulisse dantesco persuade i compagni di tante avventure ad aver fiducia in lui e a seguirlo oltre le colonne d’Ercole. Il russo teme però di farsi infinocchiare e obietta che quei nomi non significano nulla perché al momento nessuno sa chi vincerà fra i tanti candidati, ma riconosce che in Spagna i napoletani hanno molti più amici di loro, e “gli amici sono importanti”.

Un miserabile elenco di politici questa volta mostra tutta la virtù del negoziatore, ovvero la sua capacità di sfruttare ogni minima occasione a proprio vantaggio. Fin dall’inizio parla di fare a metà, non prova neppure a chiedere una percentuale maggiore a vantaggio di Conte perché sa istintivamente, per virtù, quando è il momento di mercanteggiare e quando non lo è: “iudico potere esser vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi” (7). Eremenko ora è convinto, ma per Ciro il veleno è nella coda: il capomafia gli ordina di giocare alla roulette russa. Se è stato scelto come negoziatore, vuol dire che non è importante per i suoi capi, e quindi sacrificabile; l’operazione andrà in porto comunque. Senza troppo esitare, il camorrista si sottopone anche a quest’ultima rischiosissima prova, ma la pistola non lo uccide: la fortuna ha deciso di risparmiarlo. Forse perché con essa è meglio “essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano.” (8).

Alle prime luci dell’alba, uscito vivo dalla casa dell’ incubo, in un eccesso di esultanza ben comprensibile l’Immortale va verso la spiaggia spogliandosi degli abiti man mano che s’inoltra in essa e infine si getta in mare… ed ecco che torna l’acqua, l’acqua così ambigua: la nuvola più nera la mattina, il Mediterraneo nel quale era sul punto di affogare, ora che è stato vinto diventa la nube più rosa alla fine della sua interminabile giornata, dopo che ha avuto la meglio sui mille inganni mortali che gli ha teso il viaggio a Barcellona. Il cerchio si chiude. Quel che lo attende è un bagno contemporaneamente rilassante e pieno di adrenalina per riassaporare il brivido della Grande Paura, ma in realtà si tratta del dantesco fiume di sangue bollente nel quale incontrerà idealmente Alessandro Sesto, il duca Valentino e tutti i grandi ingannatori assassini. Anche se non lo saprà mai.

Gianfranco Galliano

Note

(1) N. Machiavelli, Il Principe, V.            

(2) Il Principe, VI. 

(3) Il Principe, VI. 

(4) Il Principe, VI.

(5) Come per i nazisti, anche per i delinquenti le metafore e i modi di dire ritornano a essere azioni concrete, letterali: Ne La terza notte di Valpurga Karl Kraus afferma che se gli uomini di Hitler dicono “sparger sale sulle ferite”, potete star tranquilli che lo faranno davvero.

(6) Il Principe, VI. 

(7) Il Principe, XXV. 

(8) Il Principe, XXV.