Faceva freddo e si sentiva solo: intorno a lui, a perdita d’occhio, una distesa bianca.
“Come un deserto,” pensò “ma di ghiaccio…”.
Avanzava lentamente e a fatica e non soltanto a causa dei disagi di quell’impervio, gelido cammino, ma piuttosto perché non sapeva dove, in realtà, stesse andando.
Tutto era buio dentro di lui o percepito, forse, soltanto sfocato, al pari di quel candore immacolato che, senza avere termini di paragone, tutto confondeva, tutto annullava…
Chi era? Cosa stava facendo? Avrebbe desiderato specchiarsi anche soltanto in una qualsiasi fonte per sapere almeno che aspetto avesse: di se stesso poteva riconoscere soltanto le sue mani – lunghe, affusolate, nervose… – e quei suoi poveri piedi torturati dal gelo che parevano reggerlo a stento su gambe lunghe e fragili.
Protese una mano a toccarsi il viso: era scarno, dagli zigomi prominenti e, al tatto, il suo naso sembrava possedere una linea dritta e aggraziata e gli occhi dovevano essere piuttosto grandi ed incavati.
Il nome? Qual era il suo nome? Non lo sapeva… non lo ricordava. Guardò il sole che, proprio allora, uscendo da sotto una pesante cortina nerastra, si mostrò a lui.
“Luce, ecco … mi chiamerò Luce”, pensò allora, ma qualcosa gli rivelò che il nome che si era scelto avrebbe soltanto suscitato dei dubbi.
“Dubbi?”, si chiese. “E a chi? Qui non c’è anima viva”. Comunque – almeno per se stesso, per potersi parlare, interrogare e per regalarsi, in qualche modo, un’identità -, si sarebbe chiamato “Luce”.
Per ore seguitò a camminare in quel riverbero sempre più accecante che ora aveva intorno e che gli feriva penosamente gli occhi – di quale colore saranno mai stati i suoi occhi? -, poi, pian piano, anche quell’inatteso sole scivolò oltre l’orizzonte e, con il buio, tornò ad accentuarsi il suo smarrimento.
D’improvviso, ad incrinare quell’ovattato irreale silenzio, gli giunsero, anche se ancora lontani, degli ululati.
“Lupi” pensò, chiedendosi però in qual modo fosse stato in grado di identificarli con quel nome: non ricordava di averli mai sentiti né veduti prima.
Di lì a poco, infatti, iniziò a discernere delle sagome, dapprima confuse, ma che, man mano che gli si facevano più vicine, presero l’aspetto affusolato ed argentato dei terribili predatori.
Ben presto i loro spietati occhi gialli si fissarono su di lui che, nonostante ciò e senza alcuna paura, ricambiò sereno il loro sguardo: rimasero così ad osservarsi – lui e i lupi, divenuti nel frattempo sempre più numerosi – per un tempo che parve interminabile, poi le belve, così come erano venute, gli girarono la schiena e si allontanarono. Nel giro di qualche minuto sentì nuovamente giungergli i loro ululati, ma, ancora una volta, lontani e provenienti dalla direzione opposta a quella da cui erano arrivati.
“Allora Luce, che ne pensi?”, chiese a se stesso e, in cuor suo, si disse che in fondo non era contento che se ne fossero andati. A lui piacevano i lupi… così come era certo che gli fossero sempre stati graditi tutti gli animali, nonché l’intera natura che respirava superba intorno a lui; anche quella così aspra, così ostile come quella che aveva ora intorno: l’inversa copia, lo intuiva, di ciò che gli era stata – un tempo… da qualche parte… – congeniale.
E gli esseri umani? Un oscuro timore lo assaliva ogni volta che pensava a quella sconosciuta genìa a cui lui pure lui riteneva di appartenere; un timore che non contrastava però con il grande empito d’amore che, al contempo, provava nei loro confronti.
Alzò il viso a guardare il cielo: le stelle, così come era accaduto poco prima nel silenzio assoluto con cui l’avevano osservato i lupi, parevano, a loro volta, fissarlo da distanze abissali: la stessa distanza che provava per se stesso, ignorando chi realmente fosse.
******
Il paesaggio prese finalmente a mutare, sparuti ciuffi d’erba iniziarono, qua e là, a farsi strada tra lo strato compatto di neve e l’aria gli parve ora divenuta meno gelida ed affilata.
“Forza Luce,” si spronò affrettando il passo, “vedrai che siamo vicini a… qualcosa. Ma cosa?”
Da non molto lontano iniziò a giungergli un tintinnio di campanelle; “un gregge”, indovinò e di lì poco infatti scorse una trentina di pecore che parevano avanzare riottose e, in mezzo a loro, un pastore, nero e scostante come gli abiti frusti che indossava.
Il guardiano di pecore passò oltre senza neppure guardarlo e lui – dopo quel primo umano incontro sfortunato – si sentì ancora più abbandonato, ancora più penosamente estraneo.
*******
Ormai era giunto a un villaggio che, pur nella sua modestia, lasciava indovinare l’imminenza di una festa.
Ad ingentilire la porta d’ingresso, quasi ogni casa esibiva una vivace ghirlanda, mentre una ricca profusione di lampadine diversamente colorate adornava sia i cancelli dei villini che i rami degli alberi: un’animazione insolita correva poi tra i passanti e, riuscendo a sbirciare dietro i vetri delle finestre, vi si poteva ravvisare un abete più o meno riccamente decorato e un presepe che, esponendo una mangiatoia ancora vuota, mostrava di essere sicuramente in attesa di qualcosa. Ma cosa?
Perplesso e sempre più infreddolito riprese ad avanzare finché non scorse, un poco discosto dal villaggio, un edificio interamente bianco e dalla foggia insolita: da un lato della costruzione si levava infatti una sorte di torre sottile che, al suo vertice, pareva sostenere un oggetto singolare che lui non era però in grado d’identificare.
Senza pensarci due volte vi si diresse e, constatato che la porta era aperta, entrò.
C’era silenzio e quiete in quella grande sala vuota che lo circondava.
“Questa è la mia casa…” si disse e prese ad avanzare: ad ogni passo però la sua speranza si affievoliva e un oscuro disagio ne prendeva invece il posto.
Idoli incomprensibili l’osservavano, scene strazianti occhieggiavano dalle pareti, un luccichio troppo sfarzoso pareva poi addirittura respingerlo e lui desiderò piuttosto poter respirare aria pura e genuina, “l’innocenza di un prato, ad esempio, avvolto dal canto solenne della natura…”, si disse ma, proseguendo tuttavia, finì per trovarsi accanto all’altare. Da una nicchia laterale una scena, improvvisamente famigliare, parve quasi venirgli incontro.
Sotto la volta di una grotta di cartapesta un uomo e una giovane donna – alle cui spalle alitavano un bue ed un asinello – circondavano una mangiatoia. Tutt’intorno a loro, situati a diversi livelli, una multiforme umanità che, pur impegnata nelle più svariate attività lavorative, pareva però convergere tutta verso il vissuto di quella grotta.
“Questa è davvero la mia casa!” bisbigliò e, commosso, allungò una mano per accarezzare il volto minuto della giovane donna, così assorta nella contemplazione della greppia ancora vuota.
“Vorresti rubarla, non è vero?”.
Al pari di una scheggia affilata quella voce stentorea lo colpì alle spalle.
“Come… io…”, farfugliò allora intimorito.
“Fuori di qui… vagabondo!”, insistette allora la voce, mentre un braccio robusto lo strattonava, allontanandolo dal presepe.
“Ma… ma questa è casa mia!”, provò a spiegare Luce.
“Casa tua? Ma cosa stai dicendo, brutto pazzo! Vai fuori… fuori!”.
“È freddo fuori, ti prego…”, provò ad insistere Luce. “Non mi scacciare dalla mia casa!”, aggiunse disperato.
Con un tonfo sordo il pesante portone fu richiuso alle sue spalle e lui si ritrovò di nuovo all’esterno, al freddo – con l’unica certezza ormai raggiunta di non chiamarsi affatto Luce … anche se la luce, in effetti, era una parte di sé -, riconsegnato a una ingiusta solitudine.
******
Il traffico nelle strade era convulso e assordante, lui camminava da ore avendo perso ogni riferimento, ogni riconoscibile orientamento, anche e soprattutto per quanto riguardava se stesso.
“Chi era? Che cosa stava facendo?”.
Non riconoscendosi si tastò inconsciamente il viso per indovinarne i lineamenti: naso lungo e affilato, volto scarno con zigomi prominenti, occhi grandi e incavati. E il suo nome? Qual era il suo nome?”.
Proprio in quel momento dei fari di un’automobile lo illuminarono, quasi accecandolo.
“Luce… Luce…”, si disse allora: “In attesa di ricordare il mio vero nome mi chiamerò Luce… tanto un nome vale l’altro!”.
Intorno a lui – anche se appannata da tanta vociante confusione e dall’aria divenuta così pesante da essere quasi irrespirabile – s’indovinava la festa.
Con il suo nome appena improvvisato – ma che gli regalava comunque un po’ di sicurezza – fermò un passante con la speranza di poterne sapere cosa in realtà si stesse festeggiando…
Concedendo una tregua alla sua fretta l’uomo prescelto, dopo averne osservato per qualche attimo – e con evidente fastidio – la foggia degli abiti e l’aspetto dimesso, si degnò comunque di rispondergli, mentre però riprendeva già la sua corsa.
“Non sei affatto spiritoso, profeta, ma “Il Natale” comunque ti si addice…”.
“Natale… Nascita… ma di che? Di chi…?” pensò Luce, sorvolando sulla battuta spiritosa dello sconosciuto. “Coraggio… Luce!”, si disse poi.
Anche se ormai completamente prosciugato dalla stanchezza, volle tuttavia proseguire il suo cammino alla ricerca di qualcosa che, almeno in parte, riuscisse a rassicurarlo.
Mentre le luci in strada iniziavano ad accendersi, sbucò in una piccola piazza dove sostavano – resuscitandogli un guizzo di ricordo sepolto – una lunga fila di bancarelle: posti in bella mostra innumerevoli “presepi”, di varie fogge e dimensioni, esibivano a un pubblico, accorso numeroso, la famigliola riunita intorno a una greppia ancora vuota.
Luce si avvicinò a uno dei venditori che, ad alta voce, stava spiegando ad un bimbo per quale motivo “il bambinello” fosse ancora rinchiuso nella sua scatolina.
“Questa notte”, sentì poi che gli suggeriva “alle dodici in punto, dovrai collocare il bimbo nella greppia vuota”.
“A mezzanotte…”, ripeté il bambino e parve più un’affermazione che una domanda.
“Sì… a mezzanotte”, confermò l’uomo. “E pensa che a quella stessa ora “il bambinello” verrà posto sulla greppia in tutti i paesi del mondo!”.
Luce, sia pure ancora inconsapevole, sorrise tuttavia a quelle parole e s’incamminò intanto verso un edificio che lo aveva incuriosito per la difformità che mostrava rispetto alle altre case che sorgevano intorno.
Vi trovò penombra e profumo d’incenso… Elementi dapprima riconoscibili e dunque confortanti, sino a quando non si avvide degli idoli e delle immagini incomprensibili e spesso raccapriccianti che lo circondavano.
In punta di piedi allora, quasi al fine di non disturbare tutta quella progenie dolente e misteriosa, si avvicinò all’altare e subito s’imbatté nell’allestimento di un grande ed elaborato presepe posto a fianco dell’altare.
Notò immediatamente che quelle statuine, a grandezza quasi naturale, avevano una strana foggia di vestiti, diversa comunque dalla sua lunga tunica, ma anche dagli abiti dei passanti in cui, sino ad allora, si era imbattuto.
Il bue e l’asinello avevano però un’espressione bonaria e protettiva che inteneriva e l’uomo e la giovane donna accanto alla greppia vuota erano così espressivi da parere in procinto di ricevere il soffio vitale.
“Sono a casa”, si disse Luce, che, in quello stesso istante, capì però di non chiamarsi affatto “Luce”. “Sono finalmente a casa…”, si ripeté comunque.
“Cosa fate lì impalato”, la voce, avulsa ed estranea a tutto quel contesto, lo strappò dolorosamente dalla sua contemplazione.
“Io… io… io sono…”, ma si interruppe. “Questa è la mia casa!”, mugugnò poi e, come un bimbo ingiustamente rimproverato, andava intanto mostrando allo sconosciuto la capanna e indicava poi, con particolare passione, la giovane donna sorridente accanto alla mangiatoia vuota.
“Sì… sì… ho capito”, mormorò l’uomo, dopo aver osservato i vestiti che indossava, “ma dobbiamo chiudere… È ora di chiusura, brav’uomo!”.
“La mia casa è sempre aperta…”, mormorò Luce che non era più “Luce”.
“Ma la nostra invece no!” e, sia pure senza ruvidezza, l’uomo lo sospinse fuori.
Il portone tremò quando fu richiuso alle sue spalle e lui si ritrovò di nuovo all’esterno, in mezzo al caos di una città impazzita, riconsegnato ad una ingiusta solitudine.
******
Un sole spietato rendeva l’aria infuocata e intorno a lui le case assumevano contorni sfocati, ondeggiando come miraggi privi di sostanza.
Avanzava da talmente tanto tempo che non sentiva più di avere un corpo e le sue estremità parevano liquefarsi e confondersi nell’ardore intenso del terreno che calpestava.
“Chi era? Cosa stava facendo?”.
Con una mano, intrisa di sudore, si tastò il volto per aiutarsi a riconoscersi: incontrò un naso diritto ed affilato, zigomi prominenti in un volto per il resto scarno, e occhi grandi e incavati. La lunga tunica, ormai appiccicata al corpo, delineava forme alte e snelle: dove stava andando?
Il piccolo paese che, socchiudendo gli occhi sotto quel riverbero accecante, riuscì a distinguere, era composto di poche sparute abitazioni. Costruite in calce, di un candore immacolato, catturavano e rifrangevano la luce del sole, restituendo appunto quella sensazione di miraggi sfocati che l’avevano così colpito.
Esausto, si sedette in terra all’angolo di un palazzo più imponente degli altri e che, in quel punto, pareva offrire almeno un esiguo spicchio d’ombra.
Da lì, con una visuale un po’ meno annebbiata, poté cogliere la singolare eccitazione che, anche con quel caldo micidiale, pareva aver colto i passanti che, ignorandolo, si trovavano comunque a sfiorarlo.
Osservando ancora meglio ciò che lo circondava, notò festoni colorati appesi alle porte e ai minuti balconi, lampadine colorate e – strappandogli un’esclamazione di meraviglia – vide poi un uomo e un bambino intenti a trascinare verso un’abitazione poco distante un grande abete.
Proprio in quel momento un giovane, girando l’angolo, si trovò a sfiorarlo ed allora, facendosi coraggio, si azzardò a chiedergli “cosa si stesse festeggiando”.
Il giovane si chinò un attimo per osservarlo meglio e, dopo una rapida occhiata, lo vide prima sorridere tra sé e poi mormorargli, mentre già riprendeva il cammino:
“Il caldo… Se si beve poi… dà anche di più alla testa! Comunque, tanto per darti una risposta: buon Natale!”.
“Natale… Nascita…” si ripeté Luce – perché aveva deciso, lì su due piedi, che doveva darsi un nome, qualora qualcuno glielo avesse chiesto, ed optò, osservando tutto quel riverbero accecante, di scegliersi Luce, “tanto un nome vale l’altro…”. Nascita, dunque; ma di che? Di chi?
Mentre aspettava che il caldo si attenuasse un po’, proveniente proprio dall’edificio al quale si era addossato, udì giungere una musica dolcissima che gli trafisse il cuore.
Sollevatosi da terra, decise allora di seguire quei suoni e, ben presto, si ritrovò nella gradevole penombra di un’ampia sala dove brillavano numerose candele: l’ambiente candido, ma quasi spoglio, lo rincuorò e allora prese ad avanzare verso il centro dove sorgeva l’altare.
Lì accanto, in una nicchia poco profonda, gli veniva incontro un rustico, carezzevole presepe. Da una grotta – che ora, proveniente dalle ombre del passato, iniziava anche a riaffiorare nei suoi ricordi – si affacciavano, protetti alle spalle da un bue e da un asinello, un uomo e una giovane donna vestita nel modo che lui ricordava.
Il cuore gli diede un balzo: era a casa… era finalmente a casa!
D’improvviso avrebbe voluto farsi piccolo, sempre più piccolo… tornare quel bimbo indifeso che era stato, così da potersi sdraiare di nuovo su quella greppia vuota.
“Vi piace?”, la voce che lo raggiunse alle spalle non gli parve aspra ma, piuttosto, amica, rassicurante.
“E’… è casa mia”, si sentì allora di poter affermare. Vedendo poi il sorriso sparire dal volto dell’uomo, sostituito subito da un’aria di sospetto, aggiunse: “È davvero la mia casa ed il mio nome è – non Luce, non più “Luce”! – il mio nome è…”.
L’uomo dalla voce gentile lo guardò di nuovo con tenerezza, ma, con un cenno della mano, lo tacitò.
“Sì… sì… certo… un’altra volta, con più calma mi racconterai tutto… Piuttosto: hai fame? Vuoi che faccia qualcosa per te?”.
“Peccato”, si disse Luce – che non era più soltanto “Luce” -, lui forse avrebbe potuto capire… forse…”.
Anche se il portone si richiuse dolcemente alle sue spalle, fu comunque, ancora una volta, riconsegnato a un’ingiusta solitudine.
******
Ancora… e poi ancora… e poi ancora provò i morsi del gelo. Fu di nuovo oppresso da una calura soffocante e il puzzo e il chiasso delle città tornarono a frastornarlo, finché finalmente iniziò a vedere se stesso ripetere e affrontare all’infinito quelle prove e capì… e allora smise.
******
Era mezzanotte nei piccoli villaggi spersi in mezzo a steppe ghiacciate, così come era mezzanotte nel caos senza tregua delle grandi città, ed era sempre mezzanotte nei lontani paesi arsi dalla calura.
Scavalcando oceani, monti e fusi orari, la Mezzanotte scampanava dappertutto… Ma in ogni casa, dalla villa più sfarzosa al tugurio più inospitale, nelle chiese di campagna come nelle più fastose basiliche, non si trovò – per quanto si cercasse, per quanto ci si affannasse… – il bambinello da porre sulla greppia.
E fu così che quell’anno tutti i presepi del mondo si trovarono a contemplare una mangiatoia desolatamente vuota, poiché nessuno – quando invece avrebbe ancora potuto -, aveva voluto accogliere quella salvifica “luce del mondo” e, dunque, NESSUNO ne aveva più il diritto.