ERATAI 13 – RE YANN: L’ULTIMO CANTO DI ADAM – SECONDA PARTE

“Dovremo andar veloci, perciò non porteremo con noi altro che il necessario per la neve e la fame. Il resto ci rallenta.” Disse Gherald alle due giovani donne.

“Dammi solo il mio arco, e avrò tutto quel che mi serve!” vibrò la voce acuta e aggressiva di Jellil.

“Sta’ calma giovane donna. Avrai il tempo di scoccare le tue frecce, temo.” Sospirò Yann

“Lo spero! Maledette belve senz’anima!” urlò Jelill guardando dall’alto del sentiero più abbarbicato alla parete di montagna che  lo Staigh stava attraversando “Guarda cos’hanno fatto! I nostri bei territori di caccia, le mandrie, tutto! Si sono presi tutto!”

“Purtroppo il Nemico ha attaccato di sorpresa, con armi troppo potenti, dalla tecnologia misteriosa.” Parlò Yann con un tono calmo ma senza speranza, sapeva che un giorno le sue donne sarebbero state l’oggetto del desiderio di un essere dalla ferocia senza limiti. Allora la vita e la morte si sarebbero mischiate nei suoi pensieri, e qualora  lui e Gherald non sarebbero stati in grado di combattere e resistere al Nemico, la morte per le due giovani sarebbe stata la sua ultima speranza .

“La sua magia! Si danni con i suoi impiastri tecnologici! Il fumo delle sue macchine lo avvelenerà!”ringhiò. 

I quattro s’incamminarono verso l’apice della montagna, una cupola scura, perennemente innevata, dalla nebbia densa e appiccicosa come una ragnatela.

Dopo tre giorni di arrampicata, una sagoma titanica, un gigantesco cono di pietra s’erse dalla condensa, come un naturale proseguo della pietra.

“Non ho mai visto nulla del genere.” Esclamò Nana, voltando il mento verso l’alto

“E’ mostruoso, che roba è Yann?” chiese Jellil

“Entriamo, stanotte e per un po’ ci riposeremo nei pertugi di questo luogo.” Incalzò il suo Staigh a penetrare le tenebre di un antro che s’insinuava nelle viscere di quella strana cosa tanto enorme e singolare.

Gherald lo guardò con occhi curiosi.

“È quel che rimane di una Derema. Adam quando soffiò l’Inno nei mondi, plasmò dodici di queste strane rocce. Dodici come i mondi che accolsero l’Inno. Le Derema erano “gli accordi” per suonare la Melodia Primordiale, la prima mistura degli elementi che avrebbero accolto la Vita. Sono il punto più antico della roccia di un pianeta. Nessuno, oltre certi antichi Staigh, come il nostro, il Blu e le Emozioni possono penetrarvi, senza venire storditi dalla loro maestosità. Si dice che Adam lasciò le Derema proprio per dare un estremo rifugio alle creature in tempo di bisogno, ricordandosi di come ebbero bisogno di aiuto i Lacerta durante l’agguato di Uzzath. Perciò ad alcuni Staigh concesse la memoria di questi luoghi.”

Arwhin sospirò: “Erano i tempi in cui ascoltavamo Adam, mentre ci raccontava di come le Emozioni diedero impulso alla Vita nel Grande Vuoto.”

“Mi chiedo se ancora gli sta a cuore il mondo!” ruggì Gherald “Ha visto com’è ridotto?”

Un piccolo Frenni s’agitava fra la neve, scalpitando per racimolare qualche noce sepolta nel bianco.

La corda dell’arco era tesa, bisognava avere un grande equilibrio, la coda s’era irrigidita per bloccare il corpo nella sua posizione perfetta di tiro, in bilico su uno sperone al di sopra dell’ignaro animale. Gherald aveva incoccato la freccia e preparato il tiro da tempo, il suo istinto si era agganciato alla mente del Frenni. Qualunque mossa avesse fatto la freccia lo avrebbe colpito. Il Lacerta scoccò. Un fischio pesante, e la pelliccia del piccolo animale si tinse di scarlatto.

Gherald balzò dalla rupe, afferrò la preda, constatando che era morta e non bisognava darle il colpo di grazia. Un tiro da maestro di caccia, diretto al cuore aveva arrestato, senza farlo soffrire l’incauto animale. “Amico mio, sono tempacci. In genere non ammazzo animali così piccoli, ma capiscimi, la fame è una brutta compagna di viaggio.” Fece, riponendolo nel carniere.

Stava mettendo la freccia ripulita sulla corda, sperando in qualche altra preda  temeraria come il suo ignaro impellicciato, sulla via del ritorno.  Quando la parete liscia e tondeggiante della Derema gli fu innanzi, udì qualcosa provenire da una boscaglia derelitta dal freddo.

Si drizzò attento irrigidendo il collo, aprì le sue narici sino al massimo per recepire ogni singola molecola di odore, le orecchie erano tese, e le pupille due linee perfette verticali. Puntò subito la freccia incoccata. 

“Amico, sono tempacci, prima ti ammazzerò, poi ti chiederò chi sei.” Disse agli arbusti.

Il naso gli suggerì che oltre quel riparo di alberi rinsecchiti c’era un corpo non di Lacerta, né di un rettile predatore pericoloso. Non si trattava neppure dell’odore vibrante e ormonale di un mammifero.

Yann era di guardia allo Staigh, si era già accorto dell’ombra furtiva nei paraggi della Derema. Tornò da un’ispezione della zona attorno.

“Ho controllato il versante sud del crinale, ci sono tracce.” Disse.

“Se ti prendo t’ammazzo come il topo che sei!” ringhiò la voce stridula di Jellil, che armata di spada era rimasta a vegliare Arwhin.

“Calme donne, non penso sia pericoloso.” Il Re mantenne la sua flemma.

Nana: “Yann! Ho sentito qualcosa!”  fece, voltandosi verso la parte più scoscesa e impervia della roccia.

“Amico, se tanto pazzo da arrampicarti lì, e di notte, per giunta?!” se ne uscì Gherald, puntando la freccia verso il punto indicato da Nana.

“Aspetta, Gherald!” fece la giovane e placida Lacerta “Yann forse ha ragione, potrebbe non essere un pericolo.”

“Falla finita Nana, sono trascorsi i tempi dove i nostri vicini ci facevano visite a sorpresa, portando un bel tacchino rigonfio!” l’azzittì con tono squillante Jellil “Anche le ombre portano morte!”

La giovane abbassò il capo, avvilita dalla soverchiante rabbia della sorella. Yann le passò una mano sulla testa, come a consolarla.

“Yann, prima mi hai detto di aver trovato tracce. Che genere erano?” chiese rispettoso Gherald.

“Vieni, ti faccio vedere.” Rispose il Re.

I due si portarono non distanti dall’ingresso della Derema. Un lastrone di roccia sporgeva nudo di neve. Yann lo indicò.

“Ahi! Accidenti, sembra appena uscito da un vulcano!” Gherald ritrasse la mano scottata.

“Attento, non andargli sopra, la luce è ancora viva.” Replicò il Re.

“Luce, dici davvero, Yann?” chiese con tono quasi divertito.

Il Re annuì.

“Pensi a un ladruncolo di luce blu nei paraggi? Ne ha di fegato ad arrampicarsi sino qui e venire a rubare in casa nostra!” fischiò con una sorta di plauso per quell’eroe.

“Gli Allaghèn sono agili e la loro doppia natura di esseri di luce e corporei ne fa degli ottimi esploratori. Non è il fatto che sia arrivato sino qui a stupirmi, quanto quello di non essere ancora stato catturato dal Nemico.”

“Furbo com’è, non c’impiegherà molto a mettersi nei guai.” Aggiunse Gherald, riferendosi al fatto che la creatura fosse giunta tanto vicina allo Staigh.

“Da quel che si conosce gli Allaghèn migratori hanno evitato l’Erat nelle loro rotte di viaggio,  dopo la Catastrofe. Questo tipo è una rarità. Ed è in difficoltà.”

“Alcuni sono rimasti, infatti, perché troppo giovani per viaggiare, o per malattie, o altro…” soggiunse l’amico, poi sogghignò: “Un Essere di Luce corporeo? Bleah!” disse “Schifosi da mangiare e velenosi più d’una serpe!”

“Abbassa la freccia, non voglio ucciderlo.” Ordinò Yann.

Gheral  inclinò l’arco che aveva tenuto puntato sino a quel momento e continuò: “Ma almeno siete innocui. Vieni avanti, oppure vattene per la tua strada, sei sul territorio di caccia del nostro Staigh. Di questi tempi non è intelligente far perdere la pazienza a un cacciatore con il suo arco.”

Un parapiglia attirò l’attenzione dei due verso l’ingresso della Derema.

“Yann, Gherald, all’erta! Il bastardo  sta venendo fuori!” urlò a squarciagola Jellil.

Yann vibrò d’ira al pensiero che l’ombra si era introdotta senza che se ne accorgessero nel cuore della sua famiglia.  Si gettò con balzi potenti verso l’interno della Derema: “State riparate!” gridò alle donne. Gherald lo seguì altrettanto rapidamente. Il Re ruggì con una voce di tuono, scuotendo le rocce, l’eco del suo urlo profondo e basso penetrò sin nelle viscere della montagna. Chiunque nei paraggi avrebbe capito il guaio in cui si era cacciato, violando i confini di sicurezza dello Staigh.

Ancora un tramestio, quindi l’ombra lasciò nella fretta cadere un sacco di panno con alcune conserve.

Gherald: “Dannato ladro hai saccheggiato la nostra credenza!” Mise mano all’elsa per trarre la sua spada.

“Sono solo conserve e frutta secca, Gherald, calmati!” la voce alta, femminile  e roboante di Arwhin spezzò il caos di quel momento. I Lacerta si ammutolirono, mentre la Regina ascese dall’interno della Derema . Poggiandosi sul bastone, ma con un incedere ancora maestoso e possente, raggiunse il Re: “Non è forse il Nemico a lasciare che gli altri muoiano di fame? Noi siamo Lacerta, amici di Adam e non vi permetterò di essere un’altra cosa!” tuonò.

Intanto Gherald che aveva braccato il ladro placò il suo impeto, per ascoltare Arwhin.

“Prego, non conosco molto bene la tua lingua, signore, non m’uccidere, non t’ho rubato nulla!”

Ansimò nell’ombra di un riparo improvvisato un essere simile a un Uomo ma meno imponente, anzi, raffrontato con Adam sembrava il suo cucciolo. La sua pelle sembrava fatta della stessa neve della montagna, per via del candore così cangiante.

“Anche perché avresti ben poco da rubare.” Aggiunse Gherald “Gli Allaghèn sanno parlare in qualunque lingua, e questo mi piace molto di voi.”

“Non ho mai parlato nella lingua del tuo Staigh, perdonami se sbaglierò qualche parola.”

Arwhin gli si fece vicina, con calma lo guardò negli occhi. Le pupille nere nei suoi occhi rosso vivo potevano sembrare a chiunque non fosse un Lacerta uno sguardo aggressivo. Ma al contrario l’Allaghèn vi percepì un profondo segnale di amicizia. Erano occhi di Lacerta.

“Non m’importa della purezza linguistica.” Esordì “Dimmi cosa ci fai quassù. Fa freddo e non ci sono molte cose da mangiare.”

Gherald aggiunse: “ A meno di non cacciarsele, e tu non sei un carnivoro. Cos’è stavi seguendo un altro Staigh per rubargli qualche provvista?”

Arwhin lo colpì con uno sguardo duro.

“Noi non siamo ladri, mia Signora. Fa molto freddo, e qualche volta non potremmo vivere senza prendere qualcosa.”

“E come la chiami quest’abitudine, se non rubare?” sogghignò il cacciatore

“Ora basta, Gherald!” imperò Yann.

Arwhin non diede peso all’ironia sprezzante del loro amico. E invitò con maniere gentili ma regali l’intruso a farsi avanti.

L’Allaghèn uscì allo scoperto.

“Cielo di Ghoron! Ma come sei conciato?” balzò vedendo il suo esile e bianco corpo coperto di ferite, le dita con la pelle strappata e gli occhi pesti.

“Ti prego Signora, dammi un pezzo di pane se l’hai altrimenti lasciami andare, non ti ruberò nulla.”

“Pane? Bello mio, sei confuso, gli Uomini fanno il pane, i Lacerta mangiano carne.” Disse Gherald, basito anche lui per le condizioni della creatura.

“Sì, è vero.” Chinò il capo, tremando in modo quasi convulso.

“Vieni vicino, non ti mangerò, promesso!” posò il suo zaino di caccia sul terreno, lo aprì e ne tirò fuori la sua coperta “Sei nudo come sei nato. Con questo freddo non resisterai molto.” Gli posò la coperta.

“Sei molto gentile, Signore. Ti ringrazio.” La voce dell’Essere di Luce era simile al cinguettio di un uccellino caduto dal nido. Commosse i Lacerta.

Alessandra Biagini Scalambra