Il sole era appena sorto quando Emma lo trovò, avvolto in fasce di lana e di cotone, dentro la tinozza che di solito era vicino alla fontana.
Il sole era appena sorto e come tutte le mattina Emma, appena alzata, stava andando alla stalla, dove avrebbe munto la vacca.
Era un bambino, bianco come il latte che stava per mungere e ancora addormentato.
“Chi sei? Cosa hanno visto i tuo piccoli occhi? Cosa potrebbe raccontarmi la tua piccola bocca, se solo fossi un po’ più grande?”
Gli parlava, Emma, interrogandolo teneramente ma interrogando in realtà se stessa, tenendolo in braccio come avrebbe fatto con Gheorghe, il suo bambino nato da meno di otto mesi.
Dormiva, il bambino bianco, cullato dalle braccia ancora tremanti di Emma e dalla innocenza del suo sonno profondo.
Non sapeva quel bambino bianco cosa lo aspettasse, come non sapeva – la sera prima- perché sua madre stesse correndo nel bosco, e lui nelle sue braccia, al chiarore della luna piena, in mezzo a sterpi e grandi alberi.
Non capiva il terrore nelle gambe veloci della madre, l’ansimare del suo respiro, la disperazione della sua corsa e i latrati, i latrati dei cani e le urla della gente alle spalle, i cento rimbombi del terreno sotto cento passi veloci che inseguivano.
Correva, sua madre, tra alberi e arbusti e correndo arrivarono in quella radura.
Una radura, una casa, un camino fumante, una stalla.
“Una casa”, aveva detto la madre, una casa con una stalla, dei piccoli giocattoli intagliati nel legno sparsi sul prato, “una casa con bambini”, aveva pensato.
“Sei salvo, piccolo“ mormorò sistemandolo nella tinozza vicino alla fontana per poi spostarlo, in quella culla improvvisata, davanti alla porta della casa.
“Qui avranno cura di te” erano state le sue ultime parole, prima che le ombre tremanti alla luce rossa delle torce, le urla e i latrati sempre più vicini la costringessero nuovamente alla fuga.
Non sapeva, quel bambino bianco come il latte, dove fosse andata la madre, inghiottita dal bosco e digerita dalla ferocia dei suoi inseguitori.
Emma lo portò in casa, tenendolo in braccio stretto a sè, seduta davanti al fuoco e appena il bimbo aprì gli occhi, con lo stesso istinto di un vitello, si attaccò al suo seno, appena celato dalla camicia di Emma e carico del latte di Gheorghe
“ehi, che fame….aspetta, mi fai male….”
leggera fitta, impeto da fame.
Il calore del fuoco e del latte per un attimo furono gelati da una voce, fredda e profonda.
“Chi è che sottrae il latte a nostro figlio?”
voce cupa e profonda, la voce di Carol.
“Suo fratello. Da ora.”
Voce ferma e decisa, la voce di Emma.
Da quel momento il piccolo bambino bianco come il latte divenne parte della famiglia e a lui fu dato il nome di Ivan.
Ivan mangiava e cresceva, allattato al seno da Emma, manifestando ogni giorno di più la sua diversità.
“Non è un bambino normale, Emma…guardalo…è bianco come la luce della luna, i suoi occhi, guarda i suoi occhi… e non sopporta la luce, vivrebbe sempre al buio”
“Ne abbiamo parlato, Carol… Ivan fa parte di noi, non essere sciocco…”
“La signora Andreanu dice che è una creatura del bosco… e poi ci sono i presagi…la luna piena…”
“Solo superstizioni”
“E i fatti…. Emma… la notte che l’hanno lasciato hanno bruciato una strega a Cluj… a solo mezz’ora da qui, dopo il bosco…una donna che aveva rapporti col demonio e chissà con chi altri…e quello può essere suo figlio…dicono che quella strega avesse un bambino con sé…ma il bambino non era con lei quando l’hanno presa….”
Emma non credeva a quelle stupide superstizioni.
“Una volta è nato un bambino bianco come lui, a Cluj. E qualche tempo fa anche ai Bodreanu è nato un vitellino tutto bianco. Si chiama albinismo e non è nulla di magico o di demoniaco. E’ solo la vita….”
“…e tu, Emma… da quando è entrato in casa sembri malata… sei pallida e debole ogni giorno di più… sei dimagrita, ci sono giorni che non ti tieni in piedi…”
Il decadimento fisico di Emma fu in effetti rapido ed inevitabile.
Emma era ogni giorno più pallida, debole e spossata e per quanto si sforzasse di reagire, cercando di mangiare e cercando di non costringersi a letto non appena un minimo di forze sembrava riaffiorare, il suo peggioramento era innegabile ed inarrestabile.
Emma era sempre più magra e le sue forze sembravano svanire ogni giorno di più, nonostante i suoi sforzi e la sua voglia di vivere.
Era una notte di luna piena quando Emma morì, svuotata di ogni forza, non senza prima far giurare a Carol di occuparsi di Ivan così come avrebbe fatto con Gheorghe.
“E’ nostro figlio, Carol, anche se non l’ho partorito ha bisogno di noi, di te, Carol… ti prego non abbandonarlo”
Carol ascoltava il filo di voce di Emma, in silenzio, un macigno in gola e gli occhi gonfi di dolore.
“Lo prometto” disse solo, prima che l’ultimo soffio di vita volasse via da Emma.
Il suo corpo giaceva sul letto, intatto, pallido e prosciugato e nessuno capì mai quale strana malattia le avesse strappato via la vita, in meno di quattro mesi.
Carol rimase solo, col suo dolore e due bambini da allevare e di cui prendersi cura.
Anna Velincu era la migliore amica – l’unica, forse – di Emma e aveva appena avuto il suo quarto bambino. La generosità del suo seno le consentiva ad ogni parto di lavorare come balia. E come balia andò ad allattare sia Gheorghe che Ivan, ancora inconsapevoli orfani di madre.
Anna Velincu era una giovane robusta donna, dalla corporatura possente ed ulteriormente rafforzata dalle gravidanze e dalla asprezza della vita.
“Li allatterò entrambi, Carol, non è la prima volta che lo faccio. Lo avrebbe fatto anche Emma per i miei figli”
“Attenta, Anna… Emma è morta in questa casa, e non voglio che la stessa maledizione ricada su di te. Continuo a tenere Ivan perché l’ho giurato a mia moglie, ma è un bambino maledetto. Io ti ho avvertito”.
Anna guardava i bambini.
Gheorghe, viso purpureo, gli occhi e il sorriso di Emma.
Ivan, occhietti vispi e quasi bianchi, come la sua tenera carnagione e come i suoi capelli, bianchi nella penombra in cui viveva, biondissimi alla luce del giorno, se mai quei capelli avessero mai visto la luce del giorno.
Tuttavia Anna non credeva a quelle superstizioni e allattò i due infanti con dedizione e amore, nel ricordo dell’amica scomparsa.
Gheorghe e Ivan crescevano, nutriti da quell’amore e da quella dedizione che ricambiavano con i soli piccoli gesti che i bambini di pochi mesi sanno fare. Sorrisi, gridolini, abbracci. Semplicemente crescendo.
Anna amava quei due poppanti come fossero stati figli suoi.
Tuttavia non passò molto tempo prima che anche il possente e generoso fisico di Anna subisse la stessa sorte della sua amica.
La stanchezza e la debolezza furono i primi sintomi, combattuti strenuamente dal vigore di quel fisico robusto e possente.
Anna era sempre più pallida, e giorno dopo giorno sembrava prosciugarsi della sua vitalità.
“Non venire più, Anna. Morirai. Come Emma.”
Ma Anna non si arrese, ostinandosi nel dare il suo latte a quei due bambini, figli della sua amica – la sua unica amica- e della sfortuna.
Combatteva con tutte le sue forze, Anne, ma ogni giorno combatteva meno del giorno prima e ogni giorno era più duro del precedente.
Anche Anna in poco tempo, così come temuto da Carol, andò consumandosi come una candela dimenticata accesa.
Anche Anna, in poco tempo, morì, pallida e provata nel fisico – quel fisico che sembrava inattaccabile – divorata dall’interno da quel morbo sconosciuto.
“E’ un maleficio. Ecco cos’è. Lo stesso che ha ammazzato Emma. Una strega, o forse un vampiro, attirato da quel…”
Carol si interruppe, le lacrime ricacciate in gola, volgendo lo sguardo verso Ivan, il bambino bianco e felice che ora giocava tranquillo, nel buio di quella stanza, con Gheorghe. Suo figlio.
“Nessun maleficio, Carol. Il corpo è intatto, non ci sono segni di violenza, nessun vampiro. Nessuna strega. La morte sembra sopraggiunta dall’interno”.
Il dottor Condru era ancora chino sul corpo di Anna, e sulle sue spalle si poteva quasi percepire il peso delle perplessità e del mistero di quelle morti.
Nessuno volle più entrare nella casa di Carol, che nonostante la paura e il dolore tenne fede al suo giuramento.
Carol comprò un’asina per sfamare i bambini, lavorava nei campi fino a notte e di notte intagliava il legno. Piccoli utensili per il lavoro e l’altrui diletto che rivendeva al mercato domenicale di Cluj.
Il tempo passò e Carol crebbe i suoi figli senza distinzioni o preferenze, Gheorghe il figlio di Emma, figlio della Luce, e Ivan figlio del Buio, che rifuggiva il sole e amava la penombra.
Entrambi suoi figli, come avrebbe voluto Emma.
Il tempo passò, e in casa di Carol Emma ed Anna non erano mai morte, in realtà, continuando a vivere nei racconti di Carol e nella fantasia dei due bambini.
Il tempo passò, e i bambini diventarono ragazzi, e i ragazzi cominciarono ad aiutare Carol. Gheorghe nel lavoro nei campi, di giorno. Ivan nell’intagliare il legno, a casa di giorno e fuori solo di notte.
Ivan non usciva mai, non sopportando la luce del sole e limitandosi ad intagliare il legno a casa dove si era organizzato un piccolo laboratorio.
Usciva solo all’imbrunire, quando la luce andava calando, respirando l’aria fresca, cercando legna da intagliare, vivendo la sua vita senza luce.
La vita scorreva normale, e il tempo cancellò la paura e il ricordo di quelle morti senza motivo e senza traccia.
La storia di quelle morti misteriose venne gradualmente sospinta nell’oblio, e con lei la paura.
Fino a quando Ivan non conobbe Anca, la figlia di Alexandru il ciabattino che aveva comprato da Carol qualche utensile per il suo lavoro.
Anca era bella, Ivan era unico e i due cominciarono a vedersi di nascosto, attratti da qualcosa di ancora sconosciuto ma irresistibile, e i loro incontri si fecero sempre più frequenti ed intensi, nei modi e nei tempi.
Anca e Ivan stavano bene insieme e si frequentavano da quasi un anno quando una sera qualcuno bussò alla porta di Carol.
Quella sera – era una domenica sera – inaspettato, qualcuno bussò alla porta di Carol.
Era Alexandru, il ciabattino.
“Mia figlia Anca sta male. E’ spossata, non si alza dal letto e il suo pallore non presagisce a nulla di buono…”
Frase veloce, la voce concitata.
Carol non disse nulla, ma un lampo di paura passò per i suoi occhi.
Il tempo a volte allontana i fatti dalla memoria, ma basta poco perché il tempo non sembri mai passato e il passato torni ad essere il presente.
“E’ stata qui? E’ qui che ha preso quella malattia?”
Carol rispose solo dopo un po’.
“No. Te lo giuro.”
“Sarà meglio per te se non menti, Carol. Anca non deve morire.”
Ivan aveva sentito, e mille pensieri gli passarono per la testa, senza un ordine preciso, mille pensieri e mille ricordi.
I ricordi.
Di quella volta che la vecchia nonna Ines raccontava a lui e a suo fratello le antiche storie di Cluj, storie di streghe e di vampiri, storie da far paura e proprio per questo amate dai bambini.
Anni prima a Cluj avevano bruciato una strega, raccontava nonna Ines, faceva le magie, trasformava gli uomini in topi ed era la moglie di un vampiro.
I vampiri bevono il sangue, e vivono sotto terra, nelle grotte della foresta, questo raccontava nonna Ines.
“Quella strega era la moglie di un vampiro ma i vampiri non devono avere mogli, perché altrimenti generano altri vampiri”
Aveva detto nonna Ines
“Ma si diventa vampiro dopo essere morsicati” aveva detto Georghe “me l’ha detto Dumitru.”
Georghe andava a scuola, parlava con gli altri bambini e soprattutto con Dumitru che era il suo amico più stretto.
Ivan no. Aveva imparato a leggere e a scrivere dal fratello. Nessun bambino parlava mai con lui- a parte suo fratello- perché lui non usciva mai.
“Questo non è vero, il morso del vampiro toglie la vita, non rende vampiri” aveva risposto la nonna.
“Vampiri non si diventa. Si nasce”
Ivan ricordava, e ricordando capì.
“Avremo un figlio” gli aveva detto Anca, qualche notte prima “e sarà nostro”. L’amore aveva prevalso sulla diffidenza, sulla paura del diverso e sulla superstizione.
L’amore aveva vinto, lui e Anca, avvinghiati, solo loro e la loro passione selvaggia, fatta di baci, morsi e carezze, loro due ma una sola entità.
E Ivan capì.
Capì la debolezza, la spossatezza, i malori di Anca… tutto aveva un senso.
“E’ la gravidanza” lo aveva tranquillizzato Anca, sempre più spesso vittima di nausee, stanchezza, apatia.
Alexandru stava in piedi sulla soglia, in silenzio.
“Non deve morire”
ripeté, dopo un po’, e rimettendosi in testa il appello si girò e se ne andò.
Carol chiuse la porta, senza parlare, e Ivan capì.
Emma lo aveva accolto, regalandogli un futuro, Anna lo aveva nutrito e fatto crescere, Anca lo aveva notato portando un po’ di luce su di lui, che la luce non sopportava. Tutte e tre lo avevano amato.
Emma ed Anna lo avevano allattato e lui si era nutrito del loro latte e del loro sangue, lui, piccolo mezzo vampiro.
Anca lo aveva amato, e lui amava lei, i suoi occhi, le sue labbra e i suoi seni, morbide promesse di fertilità, troppo invitanti per non essere morse, piano piano, nel mezzo della vertigine della passione e dei sensi.
Lui, probabilmente figlio di una mortale e di un vampiro, a sua volta abbastanza vampiro per sentire il richiamo del sangue, nutrirsene un po’ per volta, non abbastanza per vivere solo di quello, ma abbastanza per strappare la vita a chi più aveva amato.
Vampiri non si diventa, si nasce.
Lui, piccolo mezzo vampiro attratto dai capezzoli più che dai colli, quei seni dispensatrici di vita e di amore dal quale –ingrato- aveva strappato la vita.
Lui, inconsapevole assassino di chi lo aveva amato.
Lui, mezzo vampiro, il cuore infranto dal dolore.
Ivan uscì, quella notte di luna piena e afferrato lo scalpello usato per intagliare il legno se lo puntò sul cuore.
Un colpo secco di martello su quel cuore, già infranto dal dolore.
09/09/2008, Corrado Sobrero