Li tirammo fuori incuriositi. Nessuno di noi sapeva cosa si sarebbe trovato davanti e vedevo che i miei fratelli fremevano, mentre il kamut apriva lo scrigno di cristallo di gesso. Erano già passate le prime tre settimane e dovevamo scoprire se i Semi del Male erano rimasti dei semplici cristalli o si erano evoluti. Quando si è davanti all’incertezza del futuro, sia prossimo o lontano, ci sentiamo tutti piuttosto sconquassati: emozioni, mille pensieri, castelli in aria, domande e via dicendo. Erano le stesse sensazioni che provai quando mi trovai abbandonata a me stessa insieme ad Idropante. Ripenso spesso a quell’avvenimento. E’ stata l’origine di tutto: se mi fossi rifiutata di rimanere a Pavia, i miei fratelli ed io non avremmo potuto togliere il panno rosso dallo scrigno in quel momento, tutti emozionati e tremolanti. Superficialmente sembrava che niente fosse cambiato. I cristalli non avevano mutato di dimensione, sembrava solamente che pulsassero e che ci fosse una variazione nel colore. In lontananza, nel massimo silenzio che potevamo ottenere, pareva di sentire un insieme di voci, qualcosa di incomprensibile e difficile da decifrare. Grüne ci disse che era sufficiente, i cambiamenti erano stati registrati e i Semi del Male potevano essere riavvolti nel panno rosso e risistemati nello scrigno. Decise anche che avremmo ricontrollato la situazione dopo una settimana. Sembrava preoccupato: gli pareva che ci fosse qualcosa che non tornava. Doveva pensare, riflettere se era necessario andare a parlare con i Durpazi, d’altronde loro avevano tutte le risposte. Eh sì, mi dissi, almeno ogni cento anni si verifica una situazione in cui Grüne non sa come muoversi e questa è una di quelle occasioni. Ed era una di quelle anche quando mi recai al palazzo di ghiaccio per informare lui e gli altri miei fratelli che avevo capito qual era il compito assegnatomi dai Durpazi. Ricordo che mi prese da parte e mi disse che se volevo occuparmi della strana faccenda del cavaliere che vedeva i fantasmi non potevo contare su di lui. I Durpazi gli avevano proibito di aiutarmi, senza dargli nessuna spiegazione, e a lui non era rimasto altro che ubbidire, se io avessi accettato, come feci.
L’idea che avevo in mente non era di restare a Pavia. Idropante aveva ricevuto l’ordine di occupare le corti sparse per il regno quindi, appena lui si fu sentito meglio, ci dirigemmo verso nord. A dorso di un cavallo, attraversando stradine immerse nella nebbia e pozze d’acqua che affioravano, ci conoscemmo meglio. Idropante era nato nella corte di Carlo Magno, ma non sapeva chi fosse sua madre: era sempre stato assegnato ad un precettore che gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, oltre che a parlare in latino, e quando non era con lui era con quello che tutti indicavano come suo padre. Un tizio corpulento, gran bevitore e malato di gotta, che aveva altri cinque figli maschi più grandi. Tutti loro erano scuri di capelli e di carnagione, con occhi neri, niente a che vedere con Idropante, biondo e con occhi blu. Inoltre raccontava che loro non lo prendevano tanto in considerazione, sembrava proprio che lo mantenessero per carità cristiana o perché obbligati dal re. Nonostante questo, Idropante era riconoscente a tutti loro: gli avevano permesso di diventare un abile cavaliere e un membro fidato della corte di Carlo. Non ci volevano proprio, diceva, quei mal di testa e quei fantasmi. Mentre mi parlava, sembrava che Idropante si fosse lasciato imbambolare dalle parole di quel frate, che lo aveva additato più volte di essere stato preso dal Demonio.
«Hai paura?» gli domandai. Vedevo che non sapeva cosa rispondere. Ai cavalieri non li si insegna ad essere dei codardi, ma non li insegna nemmeno ad affrontare situazioni come quella che era capitata ad Idropante fra capo e collo. Sospirò. Cercò di essere sincero. « Un po’. Non so se la mia anima è perduta oppure se questo è un incarico che mi ha dato Dio. Non so come comportarmi. L’unica cosa che so è che devo obbedire al mio re. Ha detto di fermarmi in un’antica città, costruita su una collina. La persona che la governa è un vassallo di Carlo. Là potremo riposare».
Dopo una settimana di cammino arrivammo nella città di cui mi parlava Idropante. Lontana da paludi, riaffiorava dalle nebbie argentate imponente nel suo antico splendore. Salimmo lungo una mulattiera e, giunti alle porte della città, venimmo subito ricevuti dal conte Auteramo in persona, che ci accompagnò al suo palazzo. Era un uomo di età indefinibile, anziano. Capelli argentei e lunghi, legati da un nastro vermiglio, si diceva a corte che fosse una persona molto preparata, uomo di fiducia del re e prima di suo padre, era stato inviato a sorvegliare questo territorio, subito dopo che Carlo Magno aveva deciso di impossessarsi del regno dei Longobardi. Proprio nel momento in cui noi eravamo impegnati ad assediare Pavia, Auteramo si stava impadronendo del potere del gastaldo della città. Se Carlo era stato magnanimo con il suo nemico, lo stesso non si poteva dire per l’anziano conte che, pare, avesse bruciato il disgraziato e l’avesse fatto buttare giù dalle mura della città. Giusto per far capire ai Longobardi chi avevano davanti.
Il suo palazzo si trovava accanto ad una chiesa fatta costruire dagli Ostrogoti qualche secolo prima. Era come se questa sprofondasse nel terreno, era piccola e buia, con il portale sbarrato. Forse era anche per le dimensioni della chiesa che l’abitazione di Auteramo mi sembrò così imponente. Doveva avere innumerevoli stanza, pensai. Entrammo e subito degli schiavi ci presero i bagagli. Il cavallo era già stato portato nelle stalle per rifocillarsi. Le nostre stanze erano già pronte: Carlo Magno doveva aver mandato un dispaccio in cui veniva annunciato il nostro arrivo. Dopo qualche ora eravamo tutti seduti a tavola, il conte ci aveva fatto preparare un banchetto. Carni salate, formaggi, piccoli panini fragranti e marmellate erano stati preparati appositamente per noi. Auteramo era seduto a capo tavola, su uno scranno tutto intagliato. Era appoggiato mollemente su uno dei braccioli. Teneva fra le dita uno dei boccali di birra che affollavano la tavolata, con un sorrisetto enigmatico che non riuscivo ad interpretare. Non riuscivo a leggere nella sua mente e questo mi rendeva piuttosto nervosa. Sospettavo che ci fosse sotto qualcosa, ma Idropante, quando gli comunicai il mio pensiero, mi sorrise. Era ovvio che non la pensasse come me. Io decisi comunque che sarei stata attenta, pronta ad intervenire con qualche incantesimo. Ero turbata anche perché, per la prima volta, sapevo di non poter contare sull’aiuto dei miei fratelli e dei Durpazi. Sorridevo, ma stavo in guardia come non mai.
A tavola insieme a noi erano sedute tre giovani donne, le figlie del conte. Erano tutte e tre bellissime e sicuramente in età da marito ed infatti mi domandavo cosa facessero ancora nella casa paterna. Erano vestite con abiti preziosi, sete tempestate di gemme preziose, i loro capelli intrecciati con cura. Ci guardavano con occhi curiosi e, soprattutto, avevano sul viso lo stesso ghigno che portava loro padre. La cena iniziò.
«Ai miei ospiti, amici di re Carlo e quindi amici miei. Potete rimanere presso la mia dimora per tutto il tempo che desiderate, siete i benvenuti!» disse Auteramo a voce alta. Iniziammo a mangiare. Mi rendevo conto che la mia ferita sulla bocca doveva essere rivoltante e inoltre mi impediva di nutrirmi senza inorridire gli altri, quindi mi limitai a bere una zuppa con una cannuccia che mi ero fabbricata. Tirando su la testa dalla scodella, in mezzo al vapore emanato dalla brodaglia calda, mi parve di vedere un’ombra che si muoveva dietro Idropante. Inizialmente pensai di essermi sbagliata, poi la rividi dietro una delle figlie del conte. Ad un tratto quest’ombra svanì e immediatamente la ragazza sembrò trasformarsi. Ruppe un bicchiere solo tenendolo fra le mani e cominciò a ridere istericamente, iniziando a levitare con il suo scranno sopra le nostre teste. Idropante sembrava spaventato mentre io non sapevo cosa fare. Le altre figlie e il padre, invece, sembravano tranquilli. Le ragazze calmarono la sorella, che tornò a sedersi a tavola e riprese il pasto dove l’aveva interrotto. L’ombra era svanita e Auteramo non proferì parola riguardo a quanto accaduto. La cena si concluse come se niente fosse: ad Idropante venne spiegato come muoversi in città, come comportarsi con la popolazione e come il vecchio gastaldo aveva, per così dire, abbandonato la sua corte all’arrivo di Auteramo. Era strano che lui stesso si vantasse di un gesto del genere. Solitamente un cavaliere, un uomo d’onore, se ha commesso delle barbarie se le tiene per sé, con la speranza che vengano dimenticate. Appena fummo da soli rivelai ad Idropante quali fossero le mie sensazioni e anche lui mi confidò di essere piuttosto spaventato. Non riusciva a capacitarsi di quanto aveva visto durante il banchetto e aveva, da allora, la sensazione di essere osservato. Gli chiesi se se ne voleva andare, avremmo sicuramente trovato un altro alloggio, ma non ne voleva sapere. Era stato mandato in quel luogo dal suo re e non aveva nessuna intenzione di disobbedire.
Mentre tutti gli abitanti del palazzo dormivano, ne approfittai per fare due passi nei corridoi e nelle sale, alla ricerca dell’ombra che avevo visto durante la cena. Potevo muovermi con discrezione, senza rischiare di essere scoperta: mi piaceva ricominciare a volare per le stanze trasportata dagli spifferi che penetravano nel palazzo. Osservai le figlie del conte, beatamente addormentate e serene, niente le turbava. Anche la ragazza che era stata presa dall’ombra sembrava serena, dormiva succhiandosi il dito. Entrai nella camera di Auteramo e mi nascosi dietro una tenda. Ero decisa a rimanere in osservazione del conte, era strano che anche lui non avesse reagito durante il pasto a quello che accadeva alla figlia. Forse sapeva cosa stava succedendo. Dormiva coperto da pellicce, gli abiti ben sistemati sopra un piccolo cassone vicino alla finestra. Ad un certo punto l’ombra si materializzò sopra il letto. Muoveva quelle che dovevano essere le braccia, sbraitava, emetteva un rumore sordo, percettibile appena. Quasi subito, dal corpo del conte si irradiò una luce violacea che si concentrò creando una figura che non riuscivo ad interpretare. Era come se sopra il corpo del conte addormentato ci fossero due ombre e queste sembravano litigare! Non potevo credere ai miei occhi. L’ombra violacea tornò nel corpo del suo ospite e l’altra sparì senza lasciare traccia. Spaventata e immobile nel mio nascondiglio, pensai di scappare. Sarebbe stato il caso di correre da Idropante ed informarlo di quanto visto o cercare l’ombra che si era dileguata? Mentre riflettevo, una forza incontrollabile mi sollevò da terra, venni trasportata in una stanza e le porte vennero chiuse con un rumore assordante. Le tavole che chiudevano le finestre vennero sbarrate. Non si vedeva niente, avevo paura , non sapevo dove mi trovavo e chi mi voleva lì. Ad un tratto si accesero delle candele, senza che ci fossero delle torce accese già presenti. L’ombra mi volteggiava intorno, studiandomi. Ecco chi mi voleva lì. Doveva vedere la mia paura come si vede un’immagine riflessa nello specchio. Si sedette davanti a me ed attaccò:
«Strega, finalmente mi hai trovato. Sono lo spirito di Auteramo. Sono stato cacciato dal mio corpo dal fantasma del gasindio che ho fatto buttare giù dalle mura della città quando l’ho conquistata. Sai, sono sempre stato un sanguinario. Dopo le numerose campagne in Sassonia re Carlo pensò di regalarmi una sorta di piccolo regno, come ricompensa a tutti i miei servigi. Per questo mi mandò in questa regione. Dovevo solo aspettare che lui conquistasse Pavia. Ed io ubbidì.
La situazione politica in questa città non era delle migliori per me. Tutta la popolazione era a favore dei Longobardi e dei Franchi non ne volevano proprio sentire parlare. Teuperto, il gasindio, si arroccò nella città aiutato dai suoi cittadini, così, quando il mio esercito ed io riuscimmo ad espugnare la città, fu necessario compiere un gesto eclatante, dovevo conquistare il rispetto del popolo, anche terrorizzandolo. Feci catturare il gasindio e, davanti alla chiesa di San Vincenzo, lo torturai, in modo che tutti potessero vederlo. Carboni ardenti sotto i piedi, pungiglioni negli orifizi, frustate: resistette per una settimana, ma poi spirò, sotto lo sguardo terrorizzato degli astanti. Lo bruciai io stesso ed in seguito lo feci buttare dalle mura e tornai al mio palazzo. Dopo cena me ne andai a letto ma non dormii serenamente. Vedevo Teuperto dal corpo martoriato, mi urlava che si sarebbe vendicato. Il sogno era così spaventoso che mi svegliai di soprassalto e, seduto sul letto, mi trovai il gasindio, ormai ridotto a brandelli, che mi prendeva per il petto e tirava fuori dal mio corpo il mio essere, quello che tu vedi come un’ombra. Dentro il mio corpo entrava il gasindio sotto forma di ombra violacea. Aveva preso il mio posto e il giorno dopo fece venire ad abitare a palazzo le sue tre figlie. Qualche volta riesco ad impossessarmi dei loro corpi, le loro anime sono ancora piccole e c’è sufficiente posto anche per me per un brevissimo periodo, è l’unico modo che mi è rimasto per farmi sentire.
Avevo preso accordi con re Carlo affinché indicassi a messer Idropante come comportarsi nel territorio circostante, ma siete arrivati nel momento in cui il mio corpo è impossessato dallo spirito di Teuperto, per questo, tu, strega, devi farmi tornare in possesso di quello che è mio. Fai i sortilegi che vuoi, prepara gli intrugli che ti servono, ma devi riportare l’ordine nella mia vita.».
L’ombra sparì e vidi la luce del sole entrare dalle fessure delle finestre. Era iniziato un nuovo giorno. Dovevo subito informare Idropante di quanto scoperto, così, con l’occasione di un giro di perlustrazione della città, gli parlai di quanto avevano sentito le mie orecchie. Ascoltò con attenzione e riflettemmo insieme sul da farsi. Tutta questa faccenda gli ricordava la sua occupazione, ormai diventata abituale: il cercare spiriti. Effettivamente il gasindio era morto ma il suo fantasma, al posto di gironzolare per dei vicoli o dei corridoi, si era insediato nel corpo di un vivo per vendetta, cacciandone il vero proprietario. Idropante era dell’idea che avremmo dovuto agire insieme, ma come fare? Dovevamo escogitare un piano, rimanemmo d’accordo che al nostro ritorno a palazzo avremmo osservato il comportamento del conte.
La giornata passò velocemente: all’orizzonte si profilavano delle nubi cariche di pioggia ed Idropante iniziava ad aggirarsi per le stanze del palazzo con gli occhi rivoltati, la ferita sulla nuca che si riapriva e perdeva sangue e la cicatrice sulla fronte che diventava vermiglia. Straparlava, come fanno i ragazzini quando hanno la febbre, e mi chiamava urlando, tenendo ben salda e vicino la scatola di madreperla che gli avevo donato dopo il nostro primo incontro. In quelle condizioni spaventò molto le figlie del gasindio, che si nascosero in una sala, sbarrandone l’ingresso. Idropante si muoveva come una marionetta nei corridoi, imprecando e chiamando a gran voce Teuperto: aveva dimenticato che doveva tenere per sé quanto gli avevo raccontato, anzi, voleva sfidare lo spirito violaceo e mandarlo all’inferno. Ad un tratto ecco davanti a lui il vecchio conte Auteramo, che lo osservava con aria di sfida. «Cosa vuoi, Idropante?»
«Rivoglio il corpo di Auteramo! Tu te ne devi andare all’inferno!».
Osservavo quanto succedeva, pronta ad intervenire. Dietro il conte vidi l’ombra dell’anima di Auteramo, attenta a balzare nel suo corpo appena fosse stato possibile. Idropante prese per la veste il vecchio conte, scuotendolo e gridando allo spirito violaceo di lasciare quel corpo. Il fantasma di Teuperto uscì immediatamente e le spoglie senz’anima del vecchio conte caddero pesantemente sul pavimento. L’ombra rientrò in un istante in possesso del suo corpo e, appena possibile, scappò via. Idropante correva alla ricerca dell’anima del gasindio, che era scappata via. Doveva essere andata a nascondersi in uno dei corpi delle figlie: era necessario, questa volta, che intervenissi. Non potevo lasciare che Idropante si avventasse in malo modo su qualcuna di quelle ragazzine impaurite. Quando fummo davanti al portone sbarrato dietro cui si nascondevano le tre ragazze, suggerii ad Idropante queste parole: « Noinimui, tui sideppi benni, sacavida tiesti da spaccia!». Dopo che lui le pronunciò, gli si materializzò davanti lo spirito violaceo. Sembrava neutralizzato, immobile, nessun sibilo e nessuna parola da parte sua. Idropante tirò fuori la scatola di madreperla e gliela aprì davanti. Lo spirito entrò subito e, una volta dentro la scatola, ci recammo in una chiesa, affinché il passaggio dell’anima venisse completato. Inserita in una fessura dell’abside, aspettammo il tempo necessario, in compagnia di voci demoniache che si lamentavo e ci gridavano di battaglie non finite e di spiriti maligni pronti a farci fuori. All’alba del nuovo giorno, lo spirito di Teuperto si trovava nel luogo in cui avrebbe dovuto essere da qualche tempo.
Resi noti i fatti, Auteramo ci ringraziò. Fece preparare un banchetto d’addio e questa volta, dimostrandosi più accondiscendente e benevolo, accettò le nostre richieste e fece liberare le figlie del gasindio, che non avevano colpa di quanto successo. Non mi piacque però il loro sguardo, non sembravano per niente grate della loro liberazione. Lasciai stare, non potevo certo occuparmi di quelle sottigliezze.
Ripartimmo. Dovevamo fare un lungo viaggio che ci avrebbe ricondotto in pianura, in un piccolo villaggio che prendeva il nome di Fara Autarena, perché Autari vi aveva fatto costruire una basilica dedicata a sant’Alessandro.
Ricordare questo episodio mi dà fiducia e Grüne lo sapeva, come sapeva anche che insieme avremmo trovato una soluzione al problema dei Semi del Male. Risistemammo la scatola sotto il pavimento di marmo nero. Mio fratello andò a chiedere udienza ai Durpazi, mentre io decisi di andare a fare visita alle figlie di Vlore e Olaf.