Ero a terra, impregnato in una pozza di sangue…il mio.
Sudavo freddo, ed ero cosciente del fatto che ne avevo ancora per poco.
Prima di crollare, sfinito dallo sforzo, ero riuscito a rintanarmi in una piccola rientranza.
Ma mi avrebbero trovato comunque.
Alle mie spalle avevo lasciato una pista inconfondibile: una lunga scia di sangue.
Li sentivo in lontananza. Erano vicini. Era solo questione di tempo.
Non avevo più le forze per continuare a scappare.
Dovevo accettare il mio destino. La mia fine.
La mia ragazza era morta sul colpo. Beata lei. Almeno non aveva subito quello che stavo soffrendo io.
Il proiettile le aveva squarciato il petto.
Mentre io, quasi miracolosamente, ero riuscito ad assorbire l’impatto e a scappare.
Ma ora, la quantità di sangue perso mi stava sopraffacendo.
Ero stordito. Provavo una sensazione di ondeggiamento.
Avevo la nausea.
Tutto era avvenuto per un regolamento di conti. Per non aver pagato il pizzo.
Ma ormai non importava più.
Stavo morendo.
Per quel poco che riuscivo a sollevare la testa, vedevo le mie gambe.
Il ginocchio della gamba destra era dilaniato.
Il colpo, probabilmente, aveva fatto esplodere la rotula.
Quella sinistra invece, all’altezza dell’inguine, presentava una lacerazione corposa, e da essa il sangue zampillava a ogni mio respiro, provocando un rumore simile a un gorgoglio.
Dal mio ventre le budella fuoriuscivano.
Con la mano destra cercavo di contenerle. Invano.
Dei passi.
Erano loro, lo sapevo. Mi avevano trovato.
Spuntarono i miei uccisori dall’angolo del muro.
Mi si fecero incontro,deridendomi.
Non potevo vederli bene in volto, per via della penombra. La coltre notturna li rendeva delle sagome nere.
Uno di loro prese a calpestarmi la gamba.
Cercavo di contenere il mio dolore. Non volevo dar loro la soddisfazione di sentirmi urlare.
L’altro, invece, impugnava il coltello e me lo conficcava con estrema lentezza tra i muscoli addominali. Sentivo la lama tagliare le carni con fatica.
Digrignavo i denti, dal dolore.
Gli occhi socchiusi per cercare di trattenermi.
Non ce la facevo più. Iniziai a urlare con tutta la voce che avevo.
Picchiavo i pugni a terra con violenza; volevo scappare.
Era orribile sopportare quella tortura.
Perché la morte doveva essere così sadica? Così violenta? Così maledettamente lenta!
Afferrai per una gamba uno dei due. Lo imploravo, singhiozzando.
Lui ritraeva la sua gamba e mi colpiva con un calcio in pieno volto, facendomi saltare i denti.
Sentivo tutto quanto ovattato.
Probabilmente perdevo sangue anche dalle orecchie.
Una forte pressione sul petto.
Mi stavano accoltellando anche lì.
Ormai era quasi finito.
Prima di abbandonare il mio corpo, riuscii a vedere qualcosa luccicare nel cielo.
I miei occhi brillavano di luce non vera.
L’ultima lacrima solcava lentamente i miei lineamenti.
Il mio desiderio, l’ultimo l’avevo espresso.
Finalmente ero morto.
Non sentivo più dolore.
Non piangevo più.
Avevo smesso di respirare, di combattere per cercare di stare in vita.
I due continuavano il loro giochetto su quello che restava del mio corpo esanime.
Mi depredarono di quello che avevo in tasca.
Prima il telefonino, poi le chiavi della macchina e il portafogli.
Infine artigliarono la mia catenina e il mio braccialetto.
Fu proprio mentre stavano slacciando quest’ultimo che la mia mano prese a muoversi.
Lo afferrai per il braccio, e tra il loro stupore e spavento strappai con un morso un pezzo di carne dal polso.
Non avrei mai immaginato che la carne umana fosse così saporita.
Mi rialzai lentamente, mentre i due in preda al panico cercavano di fuggire.
Non pensavo che sarei tornato così presto dalla morte.
I due urlarono, quando si trovarono di fronte la mia ragazza che ciondolava avanzando verso di loro.
Erano in trappola.
Ora toccava a noi divertirci.
La notte era lunga. Molto lunga, e noi avevamo tutto quanto il tempo che volevamo; più di una vita…
Non credevo che i desideri si potessero realizzare dopo aver visto una stella cadente.
02/11/2008, Emanuele Mattana