Bologna, notte d’estate, l’afa mi assale a vampate come due mani strette al collo. Mi gratto la pancia e guardo fuori dalla finestra. La città stagna sotto la morsa del caldo. L’alone bluastro di una tv si fa largo dal balcone del terrazzo dirimpetto. Visti dal terzo piano, i tettucci delle auto in sosta sembrano un lungo treno fantasma.
Getto il pennello nel secchio di colore al centro della stanza sguarnita. Gli schizzi mi centrano le ginocchia nude, e non sono i primi: ora dell’alba avrò i polmoni fradici di pittura, ma se non finisco di tinteggiare, Carola mi spaccherà i denti.
Non le piace quest’appartamento, lei ne voleva uno nuovo. Mobili vecchi, le impronte biologiche di tutta la gente che ci ha vissuto. L’ultima l’hanno portata via due settimane fa, un’ottantenne scheletrica il cui cadavere è stato scoperto in avanzato stato di decomposizione. Cristo, doveva essere un mese che era crepata! Ma così va il mondo, oggi a te, domani a me. L’affitto è ridicolo e ancor più le superstizioni che girano sul conto della morta. La chiamavano “la Striga” per un fatto di cronaca risalente a quarant’anni fa. Non che la conoscessi di fama, sia chiaro, questa città trasuda stronzate a ogni angolo, ad andar dietro a tutte bisognerebbe aver niente da fare o…essere sbirri.
La Striga era accusata di omicidio e, in effetti, le due povere donne erano state viste proprio in questo appartamento il giorno in cui sono sparite: un agente riscossore della Sip e una senzatetto lusingata da una tazza di the. Né il portiere al piano terra, né le pettegole che facevano la ronda per le scale le avevano viste uscire, un ottimo motivo per spingere la polizia a cominciare le ricerche proprio da qua. Gli agenti fecero avanti indietro dalla caserma per ben due mesi; le vecchie del terzo ricordano ancora della rabbia con cui il maresciallo dei carabinieri ordinò che si sradicassero gli armadi dai muri per poter procedere all’ispezione: niente! Un colpo di spugna aveva scrostato via le due poverette da un’esistenza linda e senza ombre.
La Striga fu scagionata, ma l’infamia le fu fatale. Si barricò tra queste quattro mura. E qui finisce la storia. La Striga è morta di fame.
Ma chissenefrega, chissà perché ho rivangato questa storiaccia! C’è ancora il maledetto armadio da spostare, quello che emana un tanfo da carogna. Farei volentieri a meno di svegliare il condominio scardinando dal muro una bestia di cento chili, ma che io sia dannato se là sotto non c’è un topo morto.
Irrigidisco i glutei e spingo con tutta la forza che ho. Uno stridio infernale risuona per i marmi del palazzo.
«Ehi, brutto coglione!» Il tizio dell’appartamento dirimpetto sbuca sul terrazzo. Sembrava non aspettasse altro. Il suo adipe roseo sbuca dalla canotta e da un paio di mutande sgualcite, agitandosi davanti all’alone della sua tv. Faccio orecchie da mercante. Se mi metto a gridare anche l’ultimo degli idioti saprà delle mie manovre notturne e allora non basteranno due palle a sopportare il peso delle maledizioni.
Mi stacco dall’armadio, frase quanto mai azzeccata visto che il sudore ha fatto colla con le croste di pittura. Arriccio il naso. La porzione di muro lasciata scoperta sembra un bubbone: al verde della muffa si sono aggiunte chiazze nere che sollevano la pittura in più punti. Qualunque sia la reazione batterica, fermentano. Un’ombra grande quanto un bambino si allarga al centro della macchia.
Mi piego e ci ficco vicino il naso. Puzza di urina. Allungo la mano che annaspa nel vuoto. Una scarica d’adrenalina m’irrigidisce la schiena. Il mio braccio penetra fino al gomito nel bubbone e ancora avanza. Qualcosa mi alita in faccia ed è lo stesso odore rancido. Arretro d’istinto e cado sulle natiche. Nel punto in cui mi sono gocciolati gli umori del muro, i peli sono tutti bruciacchiati, come corrosi.
«Ehi fighetta!» La voce mi sorprende alle spalle. Salto in piedi con la pelle d’oca così dura che potrei usarla come pettine.
Corro alla finestra. Vuole uccidermi di paura?
«Va’ a dormire, grassone!» urlo.
Sulle prime il gorilla dirimpetto non la capisce. Barcolla per la terrazza con la sua lattina di birra da quattro soldi. Di certo si considera il cattivone della situazione, perché la mia reazione lo ha spiazzato. Lo fronteggio a pugni stretti neanche mi aspettassi di vederlo saltare oltre il baratro che ci separa.
Ma qualcosa rantola dietro a me. Chi? Sono stretto tra due fuochi, da una parte l’ombra in agguato, dall’altra il gorilla carico d’odio. Mi ha segnato sul suo libro nero fin dal primo momento in cui mi ha visto, una stupida disputa in merito a chi avesse il diritto di parcheggiare vicino alla porta dello stabile.
«Vieni qua se ne hai il coraggio!» grido menando il pugno. Il trillo del cellulare mi ghiaccia il sudore. Solo le donne si sentono in diritto di tormentarti alle tre del mattino e infatti è Carola. Bla bla, verrà tra una settimana, il lavoro, la cena coi colleghi, prima proprio non può. Come dire: fai tu il lavoro sporco.
Fottiti, penso, e la cattiveria mi avvampa.
«Tutto bene?» mi chiede Carola e a ragione. Il cuore mi ticchetta come uno scalpellino.
«Ci sentiamo domani, sono esausto» le dico ed è vero. Mi trascino sul materasso e mi copro gli occhi col braccio. Dietro le palpebre mi si accedono tante piccole stelle. Crollo a dormire con l’ombra che mi sorveglia, acquattata nel buio, e lo stronzo che mi urla oscenità dal suo maledetto loculo.
Al mattino, lo stronzo non c’è più. L’ombra, invece, è ancora là. Vado in bagno tenendo la porta spalancata per poterla controllare. Uno schianto mi fa trasalire. Corro a piedi nudi in camera senza neanche tirare l’acqua: macchè, sono le sedie di quelli di sopra. Sono surriscaldato e muoio di fame. Vado in cucina, metto in tavola l’intero contenuto del frigo. Mezzo chilo di formaggio, una vaschetta di prosciutto, due rosette: mastico tutto distrattamente, il cervello che frigge al pensiero dalla maledetta ombra. I miei peli sono ancora bruciati, neanche li avessi spruzzati di idraulico liquido. Cos’è quella cosa?
«E’ solo un buco» dico ad alta voce. Magari non ho fatto altro che annaspare nel guardaroba della vicina: mutandoni e collant, sai che spasso? Lo tapperò, ma adesso devo andare al lavoro. Nel chiudermi la porta alle spalle mi sento strano: non fosse che sto morendo di fame, direi che sono sollevato.
Invece non ci torno per giorni come un vigliacco. Quando ci rimetto piede, la finestra è ancora aperta e due colombi hanno eletto l’armadio a loro nido d’amore.
«Che schifo» ride Carola. Siamo appena tornati dal cinema, è di buon umore. Batte le mani e i due pennuti sibilano via.
«E’ quello il buco?» chiede e io mi stringo nelle spalle, vergognoso. Ebbene sì, gliel’ho detto, ma adesso mi sembra tutta una gran scemenza. Quella notte ero proprio allucinato.
Carola è davvero in forma. Saranno le spalline a vista del reggiseno, sarà la pelle seminuda a cui la costringe agosto, non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Perfino la terribile ombra nel muro, al cospetto di tanta vita, torna ad essere il buco che è.
«Vediamo» dice piegandosi in avanti. In mano ha una torcia ultimo modello, versione femminista di un cavaliere senza paura. Le guardo il sedere e aspetto.
«Puah!» dice. «E’ tutto marcio, il muro è una tale poltiglia…vuoi vedere?»
Io sto già vedendo abbastanza.
«Nessun mostro viscido?» chiedo sedendomi sul materasso. Carola apprezza.
«Di viscido c’è solo il moccio delle tubature» sentenzia. «Che fregatura, ci costerà un patrimonio.»
«Io direi di tapparlo e far finta di niente» dico e intanto la attiro sul letto.
«Allora facciamolo» dice lei maliziosa. Detto fatto.
Il mattino successivo la trovo già seduta a tavola. L’aria del mattino sa d’estate e di donna, due profumi più fragranti del pane. Per la prima volta mi sento a casa.
«Cos’ha da guardare quel pezzo di merda?» Le parole di Carola m’inchiodano all’ingresso della cucina. Tira la tenda del terrazzo, uno scatto metallico che per poco non strappa gli anelli dal supporto. Ce l’ha col gorilla in agguato dall’altra parte.
Tutta la spesa è sul tavolo, sbocconcellata per la tovaglia.
«Muoio di fame» dice neanche fosse colpa mia. Inciampa su una sedia e le assesta un calcione che la sbatte schienale a terra.
«Calma bambolina» dico alzando le mani. Che succede? Non è la Carola che conosco.
«Vado a chiudere quel dannato buco puzzolente» dice e corre in camera. La sento armeggiare coi mattoni, ma non ho fretta. A mezzogiorno, Carola sta sputando l’anima sulle ultime malte, ma il buco è chiuso.
«Sono brava?» mi chiede raggiante. Il resto del giorno va a meraviglia. Quando Carola sale sul treno, mi manca già. Guido verso casa e penso all’armadiaccio pieno di vermi: lo sostituirò con qualcosa che piaccia a tutti e due.
Apro la porta dell’appartamento. La zaffata mi toglie il fiato che ho ancora la maniglia in mano. Quell’afrore da bestia, lo conosco ormai. Un blackout mi appanna i pensieri.
Entro in camera e il buco mi saluta col suo ghigno spalancato. Nessuna malta, nessun mattone, dev’esserseli mangiati quella bocca puzzolente. Ecco cos’è! La verità mi si rivela, e forse è proprio quella dannata cosa a comunicarmela coi suoi umori chimici. Il mio stomaco gorgoglia, di nuovo quella fame assassina.
«Ehi fighetta!» mi urla il tizio dall’altra parte. «Bella la tua amica!»
Blackout neuronale. Stringo la mascella così forte che i denti scricchiolano.
«Non sai quanto mi piacerebbe farmela!» dice e ride.
Mi si torcono le budella, ma non di rabbia. Lontani ricordi d’infanzia m’inebriano i sensi, l’uccisione del maiale che mio nonno ufficiava durante le feste natalizie, i grugniti della povera bestia alla vista del norcino. La risata stridula di questo suino civilizzato, questo bel maialino grasso che insulta la mia donna. Comincio a salivare e il buco gorgoglia in sintonia coi miei succhi gastrici.
«Perché non risolviamo la cosa una volta per tutte?» sibilo indicandogli la porta di casa mia. Sapevo che non aspettava altro. Sparisce come una marionetta dietro allo scenario e io crollo a sedere di fianco al buco. Ad averlo saputo prima, che eravamo in società, mi sarei risparmiato qualche capello bianco.
«Eccomi fighetta» grida il suino due minuti dopo, irrompendo dalla porta spalancata. Il suo puzzo da alcool mi centra gli occhi, sono un fascio di recettori, sentirei una formica camminare al piano terra. La Striga è stata una stupida, in vecchiaia le sono prese le paranoie: è morta di fame, giusta punizione per essere venuta meno al patto di sangue. Questo mi dice il buco.
Il suino mi carica a testa bassa. Lo schivo e lui si pianta nel muro col boato di una mazza ferrata. Lo spingo dentro col piede mentre il buco lo inghiotte.
«Mangia!» grido mentre quello scalcia per liberarsi. Lo schiocco dell’osso del collo, la schiuma degli acidi digestivi…il buco soffia fuori i miasmi della decomposizione mentre il cuore mi assorda.
La carne di maiale ha un sapore irresistibile. Deglutisco mentre il buco espelle una secrezione che ricorda la chiara d’uovo. Il tempo di asciugare, poi sarà una crosta dura come la pietra, del tutto indistinguibile dal resto della parete.
«Ho sentito dei rumori…»
La ficcanaso del secondo guarda la mia faccia allucinata.
La Striga ha vissuto quarant’anni con due soli corpi…
Si può fare.