In moltissime leggende medioevali, sentiamo parlare di piante e alberi capaci di generare esseri umani. Il più antico riferimento a questo mito risale all’VIII secolo ed è riportato in un testo cinese chiamato T’ung Tien, nel quale si narra di un gruppo di marinai arabi che dopo otto lunghi anni di viaggio scorsero in mare uno scoglio dalla strana forma, sul quale cresceva un albero dai rami rossi e le foglie verdi in mezzo alle quali spuntavano “una folla di bambini lunghi da sei a sette pollici; quando vedevano gli uomini non potevano parlare, ma tutti potevano ridere e agitarsi. Mani teste e piedi aderivano ai rami dell’albero. Quando gli uomini li staccavano e li coglievano, i bambini si seccavano e diventavano neri”.
Riferimenti di una tale bizzarria si moltiplicano nel IX secolo, periodo nel quale l’arabo al-Gahiz riferisce della medesima pianta spiegando che l’albero si chiama wak-wak, perché gli animali e le minuscole donne che da esso hanno origine non fanno che gridare continuamente questa parola. A questo aggiunge che una volta colti, proprio come dice il T’ung Tien, i frutti-umani muoiono istantaneamente. Otteniamo dalla stessa fonte anche altri dettagli, ossia che l’albero produce i fiori nel mese di marzo mentre ad aprile iniziano a spuntare le prime minuscole creature, a partire dai piedi, per poi rimanere appese per i capelli entro la fine del mese. Verso giugno, quando sono ormai mature, incominciano a cadere. Ed è proprio in quell’istante che inizia il grido dal quale prende il nome la pianta.
Grazie alle traduzioni arabe e ai testi riguardanti il mito di Alessandro Magno, le leggende sugli alberi generanti esseri umani, arrivano anche in Occidente. Intorno alla fine del XII secolo il poeta Alexandre de Bernabei decise addirittura di dedicare un intero capitolo del suo Roman d’Alexandre a questa pianta. Nel suo racconto, nello specifico, descrive l’incontro fra il re e le creature nate dal vegetale, specificando il fatto che queste stesse fanciulle vivessero soltanto durante il periodo estivo per poi morire inesorabilmente con l’avvento della stagione fredda.
L’unica cosa che di fatto accomuna tutti i racconti è che le “donne-vegetale” sono strettamente dipendenti dalla pianta e che una volta staccata da essa, muoiono senza possibilità alcuna di sopravvivenza. Soltanto nel romanzo di Alexandre de Bernabei, le fiabesche fanciulle possono anche allontanarsi dalla pianta madre, godendo di una relativa indipendenza. Ma, anche in questo caso, la durata della loro vita è brevissima e destinata a consumarsi all’ombra di qualche altro albero, nel fondo del bosco.
E’ possibile, in definitiva, che tutte queste storie scaturiscano dalla concezione mitica che gli esseri umani derivino da un vegetale, e nello specifico si vuol fare simbolicamente riferimento al mitologico Albero della Vita, quello che in tutte le culture, orientali ed occidentali, è principio e fine di ogni cosa.