DUE INFERNI DI GHIACCIO
E UNA STELLA DI LUCE BIANCA
di LUCA DUCCESCHI
Il monaco lasciò l’abbazia nel cuore della notte.
La neve cadeva fitta e il vento urlava come il Morgh in catene nelle segrete.
Padre Leville, la più alta autorità spirituale della regione, lo aveva accompagnato sino al pesante portone di ferro ed era rimasto immobile sulla soglia a guardarlo andare via, reggendo la torcia alta sopra la testa quasi a sfidare le tenebre e la bufera.
Quando il monaco si voltò, per un’unica volta, la luce della torcia era soltanto un puntino lontano che baluginava nel buio come un fuoco fatuo morente. Testimoniava la ferrea volontà di padre Leville di vedere il suo allievo prediletto tornare sui suoi passi o sparire per sempre inghiottito dal destino che tanto insisteva nel volere sfidare.
Naturalmente il monaco non tornò sui suoi passi. Né aveva intenzione di regalare la sua vita all’ignoto prima di quanto fosse stabilito nel Libro del Fato.
Padre Leville si sbagliava.
Era doloroso da ammettere – un dolore tangibile, quasi fisico, come una spina conficcata nel cuore – ma questa era l’unica cosa che gli dava speranza. E la speranza era il fuoco dell’esistenza, come insegnavano gli Antichi e come padre Leville stesso aveva insegnato a lui.
Si strinse ancora di più nel mantello di capra e mormorò preghiere al Signore, proseguendo metro dopo metro guidato dalla tenue luce delle tre lune che dal cielo si rifletteva sul tappeto bianco che copriva la regione di Thytania, come la sindone avvolgeva il corpo di Gesù.
Molto lontano da quel luogo morente, ma anche molto più vicino di quanto il tempo e lo spazio conosciuti dagli uomini potessero definire, il reverendo Charles Morgan si destò nel cuore della notte. Una parola soltanto era rimasta sulle sue labbra dall’incubo che lo aveva tormentato e il cui ricordo si era dissolto come sabbia al vento: Gretchel.
Il monaco era riuscito a superare la notte.
Alle prime luci dell’alba il cielo a oriente parve sanguinare oltre la cima degli alberi innevati e la bufera si placò. L’uomo ringraziò il Signore per avegli fatto dono di un altro giorno di luce.
Scorse del fumo salire da oltre la boscaglia. Poteva essere la locanda di Thorel. Se così era, significava che nella notte aveva camminato più di quanto pensasse.
Prese dalla borsa un tozzo di pane secco e l’addentò.
Decise di abbandonare lungo il sentiero il bastone che l’aveva accompagnato nelle tenebre.
Stolto è quell’uomo che viaggia senza armi nel buio e le mostra con la luce gli aveva insegnato padre Leville. Sacrosante parole.
Poi qualcosa attirò la sua attenzione. Tracce nella neve.
La sagoma delle orme corrispondeva ai disegni che aveva studiato sui vecchi testi ingialliti custoditi nella torre nord del monastero, il luogo riservato alle scritture proibite.
Erano orme di Morgh. Impossibile sbagliare. Almeno una dozzina. Se non li aveva incontrati lungo la strada è perché evidenemente in seguito avevano tagliato per la foresta. E se le neve non aveva cancellato le tracce è perché non dovevano essere passati da molto.
Aveva due possibilità: tornare indietro e assistere alla devastazione dell’abbazia oppure proseguire e sperare che la locanda di Thorel esistesse ancora.
Scelse la terza. Si inginocchiò e strinse forte tra le mani il crocifisso che portava al collo. Chiuse gli occhi e pregò.
Non pregò Dio né gli spiriti della foresta, come sapeva essere costume di tanti fratelli che mai però l’avrebbero confessato: il crocifisso era solo un simulacro per catalizzare l’energia della sua fede.
Pregò la grande luce che quando era bambino era caduta dal cielo e da allora gli era rimasta nell’anima.
Pregò la pietra d’ambra spezzata che aveva trovato nel cratere fuori dalla fattoria dei genitori.
Pregò la metà di quella pietra magica che al momento dell’esplosione era volata dall’altra parte dell’universo.
Gretchel. Quel nome.
Padre Morgan, pastore metodista della chiesa Rosendale, indossò una mantella e uscì dalla canonica sfidando il vento gelido che spirava sul Manitoba in quel cupo mese di aprile. Lo aspettava una lunga camminata. Erano ancora poche le persone che in Canada possedevano una carrozza a motore e in tutta la cittadina di Winnipeg non ce n’era neppure una. Ma una carrozza a motore non avrebbe potuto condurlo dove era diretto.
Alle prime luci dell’alba imboccò il sentiero che portava nei boschi. Il reverendo era nato e cresciuto in quei luoghi. Pochi conoscevano i segreti del territorio quanto lui. E nessuno, era pronto a giurare, conosceva il vecchio capanno costruito alla metà del secolo scorso dalle guide indiane.
Il vecchio capanno dove tanti, tanti anni prima aveva nascosto la scheggia di pietra ambrata che il destino gli aveva affidato, e le segrete conoscenze a essa legate.
Il monaco seppe che la preghiera era giunta sin dove desiderava. Scrutò il cuore d’ambra incastonato nel corpo di Gesù in croce che stringeva tra le mani e lo baciò con devozione e gratitudine, quindi si alzò.
Le ginocchia e la schiena pulsavano di un cieco dolore ma non era quello il momento per la debolezza. Accelerò l’andatura e in meno di un’ora giunse alle rovine fumanti della locanda.
Un numero indefinito di corpi smembrati giacevano sulla radura antistante l’edificio dato alle fiamme. Il sangue tingeva la neve di un colore simile a quello dell’alba che aveva potuto ammirare in cielo poco prima. Esplorò con attenzione la zona, benedicendo quei poveretti e tendendo le orecchie del cuore e dell’anima verso l’abbazia.
-Gretchel
Si voltò, sorpreso. Il bisbiglio veniva da dietro un carro rovesciato. Si avvicinò.
-Gretchel- si sentì ancora chiamare.
Poi lo vide. Era Thorel. Un pezzo di Thorel, che ancora viveva.
Il vecchio amico era a faccia in giù in una pozza di sangue e fanghiglia. Il suo corpo statuario così martoriato ricordava le rovine di una torre caduta. Il monaco riuscì a scorgere le viscere che si allargavano da sotto il ventre dell’uomo. Nella mano destra stringeva il tizzone in legno con cui aveva cauterizzato il moncherino della gamba sinistra che non c’era più.
Era un miracolo che vivesse ancora.
O un dispetto di qualche demonio.
-Sono qui- disse il monaco chinandosi accanto al corpulento oste con cui tante volte in passato aveva cantato e bevuto vino di fragole. -Sono qui, amico.
-Morgh- disse Thorel sputando un fiotto di sangue che sfiorò la calzatura di Gretchel. -Sono venuti i Morgh. Un cavaliere nero marciava con loro. Parla e tratta con noi umani facendosi inteprete dei loro grugniti e della loro volontà. Ha detto che sono in cerca di un fratello rapito.
Gretchel si sentì stringere il cuore da una mano fredda e con artigli di ghiaccio.
-Viaggiavano verso l’abbazia- spiegò il monaco con un filo di voce. -Avevo ragione. Ma padre Leville non ha voluto ascoltarmi. Ha preferito rifugiarsi nella fede e nelle leggende senza dare ascolto alla ragione.
Il corpo di Thorel fu scosso da violenti colpi di tosse.
-Dunque i mezzelfi raminghi ubriachi che ascoltavo in segreto dicevano il vero. Ne avevate uno…
-Padre Leville l’ha sempre considerato un segno di Dio. Un dono. Lo trovammo morente in riva al fiume Deeken ghiacciato. Lo conducemmo al monastero, lo imprigionammo e lo curammo. Da quel giorno ha sempre gridato la sua rabbia. O forse stava già chiamando i suoi fratelli.
-Se è così Thytania è come me. Spacciata.
Gretchel non disse nulla. Si alzò e prese lo stiletto da sotto il mantello.
-Sbagli, amico- posò la punta affilata dell’arma sulla gola dell’altro. -Di te posso avere pietà e ucciderti. Ma Thytania deve essere salvata.
Thorel chiuse gli occhi e gli sorrise. Un sorriso malato.
-Fallo. E Che Dio abbia pietà della mia anima.
Il monaco affondò la lama nella carne dell’amico ponendo fine al suo dolore.
-Dio non esiste- disse parlando al silenzio che lo circondava. -E’ questa l’ultima nostra speranza: perché se Dio esiste, significa che ha fallito.
Il pastore Morgan ricordava come fosse ieri quel giorno di tanti anni prima in cui, mentre stava attraversando la foresta per andare a pescare al torrente Pitchbeek, vide la bianca stella di luce cadere dal cielo. Era una giornata calda e il cielo era così terso che l’azzurro sembrava dipinto. Aveva tredici anni, un’età in cui si è disposti a credere molto più di quanto cuore e cervello consentiranno in seguito.
All’improvviso gli uccelli avevano smesso di cantare. Un lampo di luce. Sentì i rami degli alberi spezzarsi. Poi il biancore per qualche istante lo accecò. Napoleon, il suo cane, si mise ad abbaiare come impazzito, quindi fuggì con la coda tra le gambe. Il giovane Charles Morgan non lo rivide mai più.
Quando riaprì gli occhi, pochi passi davanti a lui c’era un cratere dal diametro di un paio di metri e profondo poche spanne. Al centro, una piccola pietra scheggiata color ambra lanciava dardi di luce danzando con i raggi del sole che filtravano nel sottobosco. Sembrava quasi ammiccasse. Il ragazzo allungò una mano e la strinse nel pugno.
La pietra non scottava né era fredda.
Ma la pietra, in un modo difficile da spiegare per santi, scienziati o filosofi, era viva.
Nel momento in cui aveva stretto nel pugno quella scheggia ambrata caduta nel recinto delle capre il giovane Gretchel si sentì nel contempo immensamente fragile e immensamente saggio. Davanti a sé era comparso un ragazzo grassoccio, dai folti capelli neri. Indossava abiti di strana foggia. E stringeva anch’esso la pietra.
Lo scambio – la condivisione – durò alcuni secondi. O alcuni secoli.
Poi scomparvero, l’uno per l’altro, ma senza mai lasciarsi davvero.
Adesso entrambi sapevano cose, e le avrebbero sapute per il resto dei loro giorni, indipendentemente dalla strada che avrebbero scelto.
E una della cose che il monaco sapeva è che se qui a Thytania lui avrebbe potuto fare ben poco contro i demoni del ghiaccio – padre Leville avrebbe dovuto agire molto, molto prima per coltivare speranza di vittoria contro quelle creature – l’altro custode della pietra – del potere in essa contenuto – nella sua terra sarebbe stato molto più libero di agire.
Quanto accade in un mondo ha ripercussioni in tutti gli altri cercò un giorno di spiegare al suo maestro.
Padre Leville aveva scosso la testa e carezzato la frusta.
Quanto accade in un mondo ha ripercussioni sulla nostra anima, e di conseguenza sulla nostra cultura gli rispose il maestro. Tutto il resto è leggenda. E la leggenda è superstizione.
Il monaco capì in quel momento che la luce e la pietra sarebbero rimasti per sempre un segreto, suo e del ragazzo chiamato Charles Morgan.
Anni dopo seppe di avere avuto ragione. Se Thytania si fosse salvata sarebbe stato grazie alla superstizione. E se l’abbazia fosse caduta, sarebbe stato per via della cultura. E del fatto che le culture diverse venivano tenute sotto chiave nelle segrete o nella torre nord.
Tra le rovine della locanda Gretchen trovò un cavallo terrorizzato ma in buone condizioni. Montò in sella e si lanciò al galoppo verso l’abbazia. Seguì le orme dei Morgh finchè non scomparvero nella foresta, quindi prese il sentiero a est, quello che conduceva al fiume. Dalla collina che intendeva scalare avrebbe potuto osservare sia il luogo sacro in cui aveva abitato fino alla notte prima sia il greto del Deeken dove anni prima i monaci avevano trovato il mostro morente.
Osservare e aspettare.
Non gli rimaneva altro da fare, poichè il tempo della preghiera nel mondo di Thytania era passato.
A mezzo miglio dal capanno l’aria sembrava essere diventata più fredda.
Il reverendo Morgan fece il segno della croce. Non era un fenomeno legato alla temperatura ma al luogo. Si guardò intorno con circospezione. Il grido lontano di un caprimulgo fu l’ultimo segno di vita che percepì, poi gli uccelli smisero di cantare. Anche il sibilo del vento parve abbassarsi a tonalità impercettibili, seppur sempre presente con sferzate oltremodo fastidiose che sembravano quasi graffiare la pelle del viso e delle mani. Il rumore dei suoi passi sulle foglie secche e i rami del sottobosco risuonavano come spari nel silenzio.
Giunse al capanno. La vegetazione aveva quasi interamente ricoperto le vecchie assi di legno e le finestre dai vetri scheggiati e coperti di polvere. Girò sul retro e spinse con circospezione la porta posteriore. L’oscurità all’interno sembrava quasi fatta da materia tangibile. Lo investì un lezzo di tomba e cose antiche.
Un odore innaturale che gli ricordava, se mai ce ne fosse bisogno, che quel luogo maledetto non era soltanto un vecchio capanno di cacciatori indiani.
Fu allora che venne attaccato dai fantasmi.
Quando Gretchel giunse in cima alla collina la torre nord era già in fiamme.
Scese in silenzio dal cavallo e lo lasciò libero di correre incontro al suo destino, come esso stesso aveva preteso di fare scontrandosi con Padre Leville. L’animale si allontanò e il monaco non lo rivide mai più.
Tese l’orecchio. Il vento gelato sembrava portare fin lassù il suono dei gemiti e l’odore di sangue e fuoco che venivano dall’abbazia. In quel momento ricominciò a nevicare.
I fiocchi scendevano lenti e copiosi, incuranti della tragedia che stava consumandosi.
Si voltò a osservare il Deeken.
Il fiume era ghiacciato. Pochi minuti fa non lo era.
Poteva significare solo che le cose, se possibile, erano peggiorate. Il potere dei Morgh, signori del freddo e della desolazione, si stava alimentando da sé anche a Thytania, così come in passato, narrano le leggende, era avvenuto in altri territori del continente. Quell’inverno non sarebbe mai finito.
Ancora una volta Gretchel prese il crocifisso tra le dita, chiuse gli occhi e lo baciò.
La luce dal cielo che aveva portato la pietra d’ambra non apparteneva a quel mondo, né agli altri. Era questa consapevolezza a tenere accesa in lui una flebile fiammella si speranza.
Da qualche parte, oltre i confini del tempo e dello spazio, un altro uomo che condivideva lo stesso dono – o la stessa condanna – avrebbe potuto lottare per lui.
Nel corso degli anni i due custodi avevano imparato come gli eventi, nei rispettivi mondi, sembravano inseguirsi e sfiorarsi, a volte distorcendo il tempo come per magia. Talvolta l’effetto di un’azione precedeva la causa. Talvolta ciò che sembrava frutto di preveggenza si rivelava un ricordo del passato. O un sogno di un futuro ancora da scrivere.
Talvolta non accadeva nulla, ed entrambi gli uomini di fede si trovavano a dubitare della propria sanità mentale.
Gretchel aprì gli occhi.
Un boato lontano. La torre stava crollando.
La neve divenne un turbine che lo avvolse da capo a piedi.
Strinse forte il crocifisso.
Invisibili demoni di ghiaccio volavano dal fiume verso di lui, rapidi come il vento. Non li vedeva ma il suo addestramento gli consentiva di percepirli. E anche i rami degli alberi più vicini gli si facevano incontro come artigli minacciosi pronti a colpire.
Lasciò il crocifisso e impugnò lo stiletto.
Il sangue dell’amico Thorel era l’unica nota di colore in quel mondo morente.
Padre Morgan, sulla soglia del capanno, non cercò di opporsi agli spettri.
Sapeva che prima o poi sarebbe successo. Poteva soltanto sperare che essi non sapessero quel che sarebbe successo poi.
Mormorò una preghiera, e li lasciò entrare in sè.
Il dolore era immenso. Era come se linge di fuoco gli sezionassero le viscere mentre un gelo senza fine si impadroniva della sua anima. Non cessò mai di pregare, e barcollando entrò nel capanno. Il dolore era intollerabile ma finchè avesse pregato gli spiriti maligni non avrebbero potuto avere la meglio. Né uscire da lui.
Cadde in ginocchio al centro del pavimento. Le assi di legno erano marce e spaccate in più punti
Ne spostò una, agendo alla cieca nella fitta penombra. Delle schegge gli si conficcarono nella carne. Gli occhi avevano cominciato a sanguinare. Il vento, da fuori, attaccava feroce la fragile struttura del capanno e sembrava sul punto di spazzare via tutto.
Il reverendo infilò una mano nel buco, e tra muschio e insetti trovò la pietra. La strinse con forza.
I fantasmi cessarono di esistere all’istante, e l’ultimo sibilo del vento strappò via la porta dai vecchi cardini arruginiti lasciando entrare la luce.
Gretchel lottava con la forza della disperazione contro le creature schiave dei Morgh. Lottava per la sua vita e per quella del suo mondo. Lo stiletto ne abbatteva in gran numero, e il sangue versato da Thorel sfrigolava come olio bollente ogni qualvolta il monaco ne colpiva una, ma per una che cadeva altre ne arrivavano.
Un ramo tagliente come una lama gli mozzò il polso sinistro, quello che impugnava l’arma.
Il suo grido di dolore si perse nella furia del vento e divenne silenzio, inghiottito dai turbini di ghiaccio.
Lo stiletto e la mano recisa scomparvero in pochi secodi sotto la neve.
Gretchel venne sollevato dalle forze invisibili e scagliato via, lontano.
I sensi lo abbandonarono mentre volava attraverso l’aria gelata. Il mondo vorticava intorno a lui come impazzito. L’ultima cosa che vide furono le macerie dell’abbazia, e con esse le rovine di un mondo.
Poi furono buio e freddo.
Domenica mattina presto il reverendo Charles Morgan si recò alla chiesa Rosendale per preparare la funzione serale. Una volta fatto quanto necessario si ritirò nel suo studio.
Era esausto, fisicamente e spiritualmente, e si addormentò.
Nel sogno c’era buio, e freddo, e acqua gelata.
L’incubo era un inferno di vento e ghiaccio.
Ma al di sopra delle immense ondate un coro di angeli intonava un cantico a cui non aveva più pensato per anni.
Si destò di soprassalto. Era sconvolto.
Addormentatosi di nuovo, il sogno ritornò identico.
Il pastore tornò allora nella chiesa e sistemò quel cantico sul leggio con la scelta degli inni per il maestro del coro.
Quella sera i fedeli intonarono le parole che Morgan aveva sentito in sogno.
<<T’imploriamo, o Signor, salva il naviglio
che sta correndo in mar grave periglio>>
Fu una cosa insolita in una chiesa a migliaia di chilometri dal mare.
Al pastore si riempirono gli occhi di lacrime per la commozione. Era il 14 aprile 1912.
Gretchel aprì gli occhi.
Aveva il corpo coperto di ferite. Capì che la vita lo stava abbandonando.
Mosse piano la testa, e mille fitte di dolore lo attraversarono.
Si trovava sul greto ghiacciato del Deeken.
Era finita, dunque.
Poi qualcosa attirò la sua attenzione.
Un piccolo oggetto d’argento baluginava nella neve, come se fosse vi stato appena deposto.
Una chiave. Con incastonata una gemma ambrata.
Un debole sorriso prese forma sulle sue labbra.
Si alzò e si incamminò nella foresta, morendo sempre di più a ogni passo.
Le gocce di sangue che si lasciava dietro sembravano rose rosse sbocciate nella neve.
Era quasi il tramonto quando giunse alle rovine dell’abbazia.
Scese nei sotterranei.
I Morgh erano laggiù, nelle tenebre, pazzi di rabbia per l’impossibilità di liberare il fratello recluso dalle catene.
Il monaco sollevò la chiave sopra la testa, e i demoni lo lasciarono passare.
La luce ambrata splendeva nella mano del portatore come una torcia.
Il Cavaliere Nero gli si fece incontro.
-Libera il Morgh e ti lasceremo andare.
-Non bestemmiare, verme. Non è questo un luogo adatto alla menzogna.
-Libera il Morgh.
Gretchen gli sputò in faccia e questi si scostò.
Giunse al cospetto alla bestia prigioniera senza incontrare resistenza.
Infilò la chiave d’ambra nel lucchetto delle catene, e l’aprì.
Come il demone fu libero, con un ghigno di trionfo, i mostri gli furono addosso.
Mentre gli artigli straziavano le sue carni Gretchen capì che Padre Leville aveva avuto ragione, e si maledisse per non aver compreso fino in fondo il disegno del maestro. Il sacrifico dell’ordine monastico era servito a intrappolare i demoni. Questo significava salvare Thytania e, chissà, forse anche il resto del mondo.
Nel momento in cui Gretchen morì la pietra d’ambra nel crocifisso esplose di una luce simile a quella che l’aveva condotta lì anni prima, cancellando ogni cosa intorno a sé.
Nella fine è il mio inizio fu il suo ultimo pensiero.
Poi la stella bianca lo portò via, in pace.
Ancora una volta padre Charles Morgan fu svegliato da un incubo nel cuore della notte: una montagna di ghiaccio che si abbatteva sul mondo distruggendo ogni cosa. Non si riaddormentò più.
E quella mattina venne a conoscenza della tragedia occorsa in mare, nel cuore dell’Atlantico, tanto, tanto lontano da Winnipeg, proprio mentre lui e il suo gregge intonavano quel canto che aveva sognato. Era affondato un transatlantico trascinando con sé nelle fredde oscurità degli abissi la vita di centinaia di persone. Il dettaglio che più gli diede da pensare fu il nome della compagnia di navigazione della nave: White Star.
Stella bianca.
Nel pomeriggio attraversò di nuovo la foresta e tornò alla capanna, triste ma nel contempo con una serenità d’animo che gli era sconosciuta.
La pietra d’ambra era al sicuro nel solito nascondiglio.
Ed era una pietra intera, non più scheggiata. Nel cuore dell’ambra si distingueva la sagoma di un neonato in posizione fetale.
Oggi è nato un bambino gli sussurrò una voce nel cuore. Il cerchio si chiude.
Epilogo. Aprile 1935.
Il giovane William Reeves, di vedetta a prua della nave a vapore Titanian, in navigazione tra il Canada e l’Inghilterra, avvertiva da alcune ore la presenza di una mano gelida posata sulla nuca.
Verso mezzanotte l’angosciante sensazione di pericolo era sempre più intensa. Il giovane era ossessionato in modo quasi sovrannaturale dalle analogie tra la sua nave e il Titanic, che in quelle stesse acque era affondato ventitre anni prima.
Il 14 aprile 1912.
Il giorno in cui egli era nato.
Resosi conto della coincidenza non potè trattenere un grido di terrore che liberò tutta la tensione accumulata.
Qualcuno sentì la vedetta urlare e venne dato ordine di fermare le macchine.
Il Titanian si arrestò a poche decine di metri da un colossale iceberg nascosto nell’oscurità.
NOTA DELL’AUTORE: il sogno del reverendo Charles Morgan, l’inno intonato dai fedeli a Winnipeg mentre il Titanic affondava e la vicenda raccontata nell’epilogo con protagonista il giovane marinaio William Reeves sono episodi reali, o presunti tali (fonte: Il libro dei fatti incredibili ma veri, di Charles Berltiz).
04/10/2008,