LA VISTA
di FABIO PONTELLI
Le ombre lunghe della sera rendevano quasi lugubre la stanza. I profili arrotondati dei Mastui, al di là della stretta trifora, erano nere sagome posate sull’orizzonte occidentale. Il sole era già scomparso; ma la sua rossa luce esitava ancora su un cielo ormai fattosi bruno e le nubi radunate in fitto branco. Non c’era un alito di vento; e la pioggia tanto attesa non sembrava disposta ad arrivare. Faceva caldo, nonostante l’ora e la stagione. L’estate distava ancora un paio di mesi, ma i temporali appena accennati di quell’aprile quanto mai asciutto avevano solo trasformato la calura in afa.
Dagobert, affondato tra le ombre che si stavano impossessando delle sue stanze da giorno, fissava con astio quel cielo. L’ampia mascella contratta, il nero degli occhi a scintillare rabbioso nel buio, scrutava in un cupo silenzio quel cielo scuro, che esaltava la durezza dei suoi tratti.
Una mano bussò con fare esitante. Dagobert non si mosse. Grugnì un "entra" e se ne restò lì, senza nemmeno voltare il capo. E il soldato, in piedi davanti alle porte e con l’elmo in mano, attese nervosamente che il sovrano si degnasse di prestargli un po’ d’attenzione.
«Cosa vuoi?» disse infine il re.
«I nani, maestà. Sono arrivati.»
Dagobert si alzò dalla sua poltrona e seguì il soldato fin sugli spalti. Hanmir, comandante della guarnigione, era lì, intento a scrutare l’orizzonte settentrionale. Vide il re con la coda dell’occhio e prontamente scattò in un rigido saluto militare.
Dagobert fece un vago cenno con la mano per dire di lasciar perdere le formalità e studiò la pianura ormai fattasi buia. Laggiù, ancora lontano, l’esercito dei nani avanzava con fare tranquillo, fin troppo sicuro della propria forza. Era una grossa armata, del resto, abbastanza grossa da non doversi preoccupare nemmeno delle mura che circondavano la fortezza di Perth. E i rinforzi che lui e i soldati della sua guarnigione aspettavano erano in netto ritardo. Se almeno fosse giunta quella maledetta pioggia…
«Portatemi il prigioniero.»
«Agli ordini, maestà. Estar, Vanliud, andate a prenderlo.» I due scattarono sull’attenti e, un attimo dopo, abbandonarono gli spalti e si diressero verso i sotterranei del castello.
Una ventina di minuti più tardi, il sovrano era di nuovo nelle sue stanze. Estar e Vanliud, davanti alle porte, stringevano saldamente le braccia di un vecchio nano ingobbito dal tempo e dal peso delle catene.
«I tuoi amici sono venuti a prenderti» disse Dagobert, squadrando con durezza il prigioniero.
«Non sono amici miei. Ma la cosa non mi sorprende.» La bocca del sovrano si piegò in un accenno di sorriso, ma nei suoi occhi non comparve ombra di ilarità alcuna. «Voglio sapere cosa accadrà.»
«I nani attaccheranno» replicò il vecchio.
Dagobert si alzò e si avvicino al prigioniero senza mai distogliere lo sguardo da quegli occhi di un azzurro reso scialbo dall’età. Si fermò a un passo di distanza e, all’improvviso, sferrò un violento manrovescio che, se non fosse stato per i soldati che lo reggevano, avrebbe scaraventato il nano per terra.
«Attento, nano! La mia pazienza è agli sgoccioli!»
Il vecchio replicò con quel suo sguardo che riusciva a risultare contemporaneamente triste e determinato. Non parlò, e d’altronde Dagobert non si aspettava che lo facesse. Era più cocciuto di un mulo, quel maledetto nano.
«Va bene, Aderant, fa’ come vuoi. Ma sappi che non ti concederò molto tempo. Tre giorni, non uno di più. Se fra tre giorni non ti sarai deciso a rivelarmi ciò che puoi vedere, mi prenderò la tua vita.»
«Attenderò la morte con ansia, maestà.»
«Portatelo in cella» ordinò Dagobert ai due soldati. Poi se ne tornò alla sua poltrona e ai cupi pensieri che lo tormentavano.
L’alba trovò i soldati della guarnigione di Perth schierati sugli spalti. Dalle retrovie dell’esercito avversario, i genieri comparvero con le assi atte a costruire le macchine d’assedio, mentre i fanti leggeri completavano l’accerchiamento senza mai entrare a tiro. La fanteria pesante, invece, se ne rimase davanti alle porte: un muro capace di reggere ogni tipo di carica. La cavalleria degli uomini, in quei lunghi anni di guerra, aveva già sperimentato quanto fosse difficile superare una barriera del genere.
Quando la mattina si fece matura, i nani fecero la prima mossa. La fanteria pesante allargò i suoi ranghi a far passare gli arcieri, e le frecce s’infransero sulla merlatura e gli scudi degli assediati. Una scarica sola; poi si portarono fuori tiro. Il gioco si ripeté più volte e in punti diversi. Non erano attacchi che potessero far male, ma tra le mura il nervosismo aumentava.
I nani, invece, sembravano divertirsi. Continuarono a sprecare frecce fino a sera, e il giorno dopo ricominciarono da capo. I genieri, intanto, costruivano una macchina dietro l’altra. Lanciadardi e catapulte, scale e arieti sorsero come funghi e si disposero tutt’attorno alle mura. E infine anche gli scheletri delle temute torri cominciarono a sollevarsi dalle piatte pianure che circondavano il castello.
Hanmir studiava il nervosismo sparso sugli spalti; gli sguardi preoccupati che andavano immancabilmente a posarsi sulle grandi macchine. I nani riempivano la piana col loro numero. Era un esercito immenso: diecimila e forse più nani addobbati delle loro armature e delle asce da combattimento. E loro, poche centinaia di uomini richiusi dietro quelle mura, non potevano nemmeno approfittare della poca mobilità di quell’armata. Non potevano far altro che restarsene lì ad aspettare e sperare di resistere a sufficienza.
I nani, da parte loro, non sembravano avere fretta alcuna. La loro avanzata aveva tagliato fuori Perth, e anche se a sud le forze umane erano riuscite a sfondare, i rinforzi erano ancora molto lontani. Lo sapevano bene, e se ne approfittavano. Un paio dei soliti attacchi senza pretese movimentarono il pomeriggio; poi il sole andò a coricarsi e Hanmir abbandonò gli spalti per recuperare quel letto che non vedeva da un paio di giorni.
Si liberò di spada e armatura e si stese sul giaciglio, fissando a lungo il soffitto e le dense volute dei suoi pensieri. Le palpebre cariche di stanchezza si abbassarono, alla fine, e il comandante sprofondò in un sonno senza sogni.
«All’armi! All’armi!»
Hanmir spalancò gli occhi e balzò giù dal letto prima ancora di svegliarsi. Le grida dei soldati riempivano la notte ancora giovane, e istigavano le sue mani a fare in fretta. Si allacciò l’armatura alla bell’e meglio, afferrò la spada e recuperò gli spalti di corsa.
Le frecce piovevano da ogni parte. Dardi comuni e dardi incendiari. Il fuoco aveva già attecchito, qua e là, i tetti degli edifici interni bruciavano e illuminavano le mura settentrionali. Al di là dei merli, invece, i nani si muovevano nel buio di una notte stemperata solo da una misera falce di luna. Le torri, ancora incomplete, erano ancora là, sullo sfondo, a guardare la battaglia, ma le altre macchine si erano messe all’opera. I lanciadardi e le catapulte stavano concentrando il tiro su quel lato delle mura, e gli arieti si stavano preparando ad entrare in azione. Le scale, però, non si vedevano, e Hanmir si voltò dall’altra parte, improvvisamente allarmato.
«A sud!» berciò, attirando l’attenzione degli uomini più vicini a lui e dei suoi ufficiali. «Difendete il lato sud!» ripeté, mentre già correva verso le mura meridionali.
Coperti dalla notte, i nani si erano avvicinati fin troppo. Distratti dall’attacco sul lato nord, i soldati sugli spalti meridionali solo adesso si stavano rendendo conto di cosa stesse accadendo. Hanmir era già lì, accompagnato da un nutrito plotone di uomini e con in bocca gli ordini urlati. Gli arcieri svuotarono le faretre contro la fanteria leggera dei nani e dalla pianura i nani risposero, azionando anche le macchine disposte su quel lato. La notte si riempì di urla strazianti e l’erba e le mura di cadaveri, mentre le scale si appoggiavano ai merli e gli assediati gettavano olio e massi addosso ai nemici. Hanmir urlava, tentando inutilmente di sovrastare il caos che lo circondava, gridava insulti e spingeva i soldati di qua e di là, tentando di arginare l’attacco. Poi gli arieti si schiantarono contro le mura del lato nord, facendole tremare.
«Le scale! Buttate giù quelle maledette scale!»
Le grida si perdevano nella confusione imperante sugli spalti. I soldati lottavano con fare disperato. Spingevano le scale nel vuoto e si trasformavano in bersagli per gli arcieri; condivano la pianura sottostante con l’olio bollente e si ritrovavano infilzati dalle spade già giunte sugli spalti o perdevano l’equilibrio quando le mura tremavano sotto l’impatto dei massi vomitati dalle catapulte. A nord, intanto, le fiamme illuminavano a giorno i bastioni e gli arieti si davano da fare, tenendo occupati gli uomini disposti su quel lato. Hanmir infilzò il nano che stava scavalcando i merli e scalciò la scala con tutta la sua forza, guardandola, mentre raggiungeva la verticale, esitava un attimo in un equilibrio quanto mai incerto e poi si abbatteva dall’altra parte con tutti i nani che la riempivano. A destra e a sinistra, i suoi soldati facevano la stessa cosa. A volte ci riuscivano, a volte no, e intanto i massi facevano strage e l’olio bruciava i nemici resi goffi dal terrapieno che rendeva salde le mura. Le frecce giungevano a stormi, abbattevano decine di uomini e le catapulte ne uccidevano altrettanti, schiacciandoli o facendoli cadere di sotto. Un colpo particolarmente ben assestato, aveva distrutto alcune braccia di merlatura e travolto i soldati che stavano versando l’olio, e scale e nani continuavano ad arrivare, instancabili.
L’attacco si prolungò per un tempo apparentemente eterno. Hanmir non aveva più voce né energia alcuna, e i soldati, stanchi e impauriti, cominciavano a farsi goffi e a scontrarsi come se fossero un branco di reclute imbranate. Poi, quando sembrava che non ci fosse più speranza, i nani si ritirarono.
La tensione uscì dalla bocca di Hanmir in un pesante sospiro, portandosi via le poche energie che gli rimanevano. Guardò i nani, poi il cielo che si stava schiarendo; e capì perché i nemici avessero deciso di sospendere l’attacco. Un paio d’ore più tardi, il sole spuntò a illuminare le piane e il tappeto di cadaveri che le ricopriva.
Dagobert oltrepassò le soglie della cella e guardò il vecchio nano che se ne stava seduto in un angolo. In alto a destra, una piccola finestra lasciava filtrare un po’ di luce di tra le sbarre. Ben poca, a dire tutta, quanto bastava per distinguere il buio della notte dalla penombra del giorno.
«Hai qualcosa da dirmi, nano?»
L’altro esibì quel suo mesto sorriso. «Le cose non vanno bene, per voi.»
«Cos’hai visto? Cosa succederà?»
Aderant si limitò a scrollare il capo.
«Nano, tu possiedi un grande dono. E io saprò essere molto generoso, se mi rivelerai ciò che mi aspetta.»
«La Vista, sire, non è un dono. Non in tempi come questo, almeno.»
Dagobert sputò per terra le sue opinioni. «E allora portati la tua preveggenza nella tomba, nano! Un giorno. Ti rimane solo un altro giorno per cambiare idea» disse; poi diede le spalle al prigioniero e se ne andò.
Aderant guardò la porta richiudersi, portandosi via il riverbero delle fiaccole che illuminavano il lungo corridoio. Il poco cibo che gli davano era lì, davanti a lui: un tozzo di pane e una ciotola piena d’acqua. Abbastanza per rimanere in vita, nulla più. Fin troppo per chi, come lui, vedeva in ogni nuova alba il prolungarsi di quella sua pena.
La Vista non era un dono, ma una punizione. La sua mente poteva vedere il futuro, e il futuro gli mostrava solo morti e guerra, guerra e morti.
Alzò il capo, studiò la luce che penetrava nella cella attraverso quella stretta finestrella. Anche il sole sembrava stanco di donare calore a quel mondo senza speranza. Ogni giorno sorgeva e ogni giorno i suoi raggi illuminavano la morte che nani e uomini spargevano sulla terra. Erano occupati a combattere, loro, da più di trent’anni non facevano altro che combattere. Non si fermavano mai ad ammirare la bellezza di quel mondo che stavano distruggendo; non si fermavano mai a guardare il sole. Tanto violenti quanto arroganti, davano per scontato che il sole avrebbe continuato a tramontare e sorgere come sempre aveva fatto. Aderant scrollò il capo e si abbandonò contro il muro. Era vecchio, terribilmente vecchio; e molto, molto stanco. Chiuse gli occhi, e vide ciò che sarebbe accaduto.
Perth passò una notte tranquilla. Dopo aver tentato di prendere la fortezza con la sorpresa, i nani ora aspettavano di avere a disposizioni anche le torri, prima di gettarsi nuovamente all’attacco, e gli uomini avevano accolto di buon grado quella pausa.
Hanmir si era concesso un paio d’ore di sonno ed era tornato lì, sugli spalti. La luna, sempre più vicina al novilunio, sparì quando all’alba mancava poco più di un’ora, e lui recuperò il suo letto deciso ad approfittare nel modo migliore di quella breve pace.
Nelle sue stanze, Dagobert dormiva un sonno tormentato da sogni inquietanti. Si svegliò più stanco di quando si era si era coricato, e guardò il buio che riempiva i suoi appartamenti. Si alzò, oltrepassò le porte che dividevano le stanze da notte da quelle da giorno e si lasciò cadere sulla sua poltrona preferita. Fissò il cielo al di là della finestra, quel manto nero punteggiato di stelle, e cercò di recuperare quei sogni che si erano disfatti non appena aveva aperto gli occhi.
Il bussare insistito alle porte lo interruppe.
«Entra, sono sveglio» grugnì.
Il soldato ubbidì e si fermò sulle soglie, cercando parole che non trovava. «Spero che sia urgente» minacciò il re, riuscendo a mettere ancor più in agitazione il pover’uomo. «Abbastanza urgente da giustificare la tua presenza qui, nelle mie stanze, quando il sole non si è ancora mostrato.»
«Veramente, sire… ecco… a dire il vero…»
«Vuoi dirmi cosa è successo o preferisci finire a far compagnia a quel vecchio nano che addobba le nostre celle?»
«Il sole, sire. Il sole doveva sorgere due ore fa.»
Dagobert aggrottò la fronte e poi scrollò il capo. «Si può sapere di che stai farneticando?»
Il soldato boccheggiò a cercare ancora le parole; poi rinunciò. «Il comandante Hanmir vuole vederla con urgenza, sire. Lui le saprà illustrare meglio la situazione… credo.»
Dagobert rispose con una maledizione e seguì il soldato fin sugli spalti. Guardò i soldati intenti a scrutare il cielo e raggiunse Hanmir.
«Be’, che succede?»
Il comandante si voltò a rivelare uno sguardo tra l’incredulo e lo sconvolto e per un attimo se ne restò lì, come paralizzato. Poi scattò in un secco saluto e parlò: «Il sole, sire. Il sole non si è ancora mostrato, sebbene l’alba sia ormai passata da un paio d’ore.»
«Cos’è, uno scherzo?»
«No, sire. Guardi» replicò Hanmir, indicando col braccio l’accampamento nemico.
Dagobert guardò i nani che, senza nemmeno le armature indosso, si aggiravano per la piana con l’aria smarrita e gli occhi puntati al buio del cielo. Lo guardò anche lui, cercando una spiegazione che non c’era; e un pensiero si fece pian, piano strada nella sua mente. «Andate a prendere il nano» ordinò.
Dopo un attimo di esitazione, un paio di soldati ubbidirono e recuperarono in fretta i sotterranei. Tornarono dopo una ventina di minuti, ed era chiaro che non portavano buone nuove.
«Dov’è il prigioniero?»
«In cella, maestà. Non respira; è sicuramente morto.»
Dagobert comunicò con un cenno ai due di fare strada e percorse il lungo corridoio che si insinuava sotto il castello. Uno dei soldati aprì la porta e controllò che non ci fosse pericolo alcuno; poi si fece di lato e lasciò entrare il re.
Aderant era là, accovacciato nel solito angolo. Dagobert si avvicinò e constatò di persona che era proprio morto. Si rialzò, già pronto ad abbandonare la cella, e si bloccò. Scostò le vesti ampie che nascondevano il corpo del nano e guardò il foglio di pergamena che era caduto sulla ciotola dell’acqua. Aveva fornito al nano pergamene e inchiostro nella speranza che potesse almeno scrivere gli avvenimenti che la Vista gli permetteva di vedere, ma Aderant non aveva mai scritto nulla… finora.
Raccolse il foglio e lo scrollò per liberarlo dall’acqua che ne aveva inzuppato un angolo. Erano solo poche righe, una profezia:
"Verrà il giorno in cui l’ultimo uomo giusto morrà;
verrà il giorno in cui l’ultimo nano giusto morrà.
E verrà il giorno in cui il sole non sorgerà".
Dagobert lasciò cadere il foglio per terra e se ne tornò all’aperto, a guardare quel cielo orfano del sole e quel mondo orfano di giustizia.
05/10/2008,