CAPITOLO I : IL SOGNO NEL SOGNO
«I vichinghi! Arrivano! Ci attaccano! Correte, rifugiatevi nella fore…» Il grido d´allarme s’era levato forte, stridulo e disperato penetrando la nebbia del mattino che stava sorgendo, prima di essere spezzato, troncato nella sua nota più acuta. Subito dopo il fuoco aveva attaccato le palizzate del porto e, da silenzioso che era, il villaggio si era trasformato in un tumulto di urla, gemiti e gente che correva da tutte le parti cercando di salvare il salvabile: una pecora, un maiale, una rete da pesca, una sacca di cibo. La nebbia offuscava la vista, ma le orecchie avevano compreso l’inizio della tragedia. «In piedi, bambini, svegliatevi! Non potete restare qui; tenete, le coperte. Tu, prendi il pane là sopra, e le patate, veloci, mettete tutto nelle coperte e correte fuori. Non fermatevi! Il mantello pesante, non dimenticate il mantello pesante e gli stivali!» La mamma sembrava impazziva mentre dettava quegli ordini frenetici che provvedeva a esaudire lei stessa; con una velocità che non le conosceva, Caja la vedeva arraffare tutto quel che poteva e ammucchiarlo dentro le coperte mentre lei e il fratello infilavano scarpe e vestiti più in fretta che potevano, incalzati da quella voce terrorizzata e dalle note isteriche. Caja non ne capiva il motivo, aveva soltanto sognato una voce che dal porto avvertiva il pericolo, e la confusione. «Cosa succede?» provò a domandare con la voce ancora impastata dal sonno e, per tutta risposta, si ritrovò tra le mani uno dei due sacchi annodati, l’altro era fra quelle di suo fratello, non meno frastornato di lei. La mamma li afferrò ciascuno per un braccio trascinandoli verso la porta, fuori dalla capanna. «Fuggite nella foresta! I vichinghi non si spingeranno laggiù, sarete in salvo, non vi troveranno!» Il villaggio si era trasformato in una sorta d’inferno dove il fuoco divampava da tutte le parti, con grida di terrore, di dolore, d’aiuto e agonizzanti che s’intrecciavano fra loro in una straziante cacofonia. "Qualcuno sta morendo" pensò Caja, e quasi ruzzolò per terra spinta da un uomo che correva allìimpazzata nella nebbia urlando a sua volta. La bambina si guardò intorno spaurita, non c’era più traccia della sua mamma, e neppure della capanna, dov’erano andati a finire tutti quanti in quella confusione? E suo padre? Dov’era suo padre? Lei non l’aveva più visto. Nerth l’aiutò ad alzarsi: «Sbrigati, andiamo via di qui, verso la foresta, da quella parte!» Anche la voce di suo fratello era incalzante e nella sua mano sinistra brillava la lama di un coltello, spettrale attraverso la nebbia e la confusione. Caja cominciò a correre dietro il fratello trascinando la sacca troppo pesante per lei, lui aveva le gambe più lunghe e la distanziava velocemente: la paura la fece urlare con tutto il fiato che aveva in corpo: «Nerth! Nerth! Aspettami!» Dal muro di nebbia balzò fuori un gigante. Caja sollevò su di lui lo sguardo terrorizzato: aveva la barba folta lunga e rossa che lo faceva rassomigliare a un demone, gli occhi grossi e spalancati che sprizzavano odio ed esaltazione sopra il ghigno beffardo che gli deformava la faccia, e le due braccia dell’uomo erano sollevate nell’atto di brandire un’ascia; Caja urlò. «Svegliati, Caja, è un sogno, è il solito incubo!» La voce la raggiunse attraverso l’inferno che si era impossessato della sua mente e Caja spalancò gli occhi; dapprima vide ancora l’ascia bilama abbattersi sopra di lei, poi il suo sguardo fu catturato dal chiarore dell’alba; suo fratello Nerth le era accanto e l’accarezzava. «Sei al sicuro, Caja,» cercò di rassicurarla, «è passato tanto tempo, non devi più avere paura.»
La donna fu scossa da un tremito e si agitò sotto le pelli di lupo che proteggevano il suo inverno, i capelli neri incollati alla faccia, umidi di sudore e di lacrime; il focolare era spento e l’aria gelata, avrebbe dovuto alzarsi e spezzare il buio con la luce delle fiamme, ma l’oscurità gravava sul suo petto e ogni fibra della mente impedendole di alzarsi. Che genere di notte la bloccava in quel doloroso giaciglio? Un accenno di luce si insinuò fra le palpebre e lei ripensò alle immagini venute a turbare il suo sonno, al fuoco che divorava il villaggio, al demone che voleva ucciderla, a suo fratello che le diceva di svegliarsi; non sapeva se fossero incubi o ricordi seppelliti in un angolo remoto della coscienza. Improvvisamente ebbe la sensazione di una mano tesa verso di lei, una mano che stringeva forte il suo braccio e l’aiutava a svegliarsi, guidandola fra i meandri del crepuscolo in cui si era persa. «Nerth!» mormorò cercando di alzarsi. Ma la stessa forza la respinse facendola scivolare all’indietro, lungo un tunnel oscuro, dentro un pozzo senza fondo e lei vide la luce allontanarsi, e se stessa cadere, sprofondare, gridare, senza che alcuno venisse a soccorrerla; tese le braccia alla ricerca di un appiglio cui aggrapparsi, ed esse si mossero in una massa grigia e informe che le spezzava il respiro, la soffocava. Vide una lama di luce provenire da un varco, la donna si precipitò in quella direzione.
CAPITOLO II : LA LUNA CAPOVOLTA
Benché la temperatura fosse fredda, il sole splendeva piacevole, di tanto in tanto offuscato da qualche nuvola di passaggio; Caja si addentrò nella foresta alla ricerca di legna. Quando ne aveva accumulato una certa quantità, formava una fascina, la legava e la lasciava sul sentiero, in un punto di passaggio, in modo da poterle portare a casa a fine giornata. Benché fosse faticoso, quel lavoro non le risultava sgradevole. Prima della stagione delle piogge la legna si trovava in abbondanza, spesso da arbusti che ormai avevano perso le foglie e che, durante l’estate, avevano raggiunto dimensioni considerevoli; vagando nella foresta, Caja ne trovò uno talmente rigoglioso che avrebbe dato da solo la legna per un intero mese, quindi cominciò a tagliare, partendo dai rami più alti e sottili per finire con quelli più grossi alla base, avendo cura di non potare troppo la pianta affinché non ne soffrisse e crescesse ancora più grossa e robusta nella bella stagione. Alla base dell’arbusto, Caja si avvide che la terra appariva stranamente battuta e regolare, senza neanche un filo d’erba; incuriosita afferrò un ciuffo di fronde ormai secche e cominciò a ramazzare, finché dalla terra non emerse qualcosa di nero e lucente. La ragazza proseguì meticolosamente a rimuovere la terra e ad allontanarla, mentre la grossa lastra rettangolare che vi era stata sepolta vedeva la luce. Caja restò sorpresa a fissarla. Quel che aveva dissotterrato non poteva essere che la copertura di una tomba, Caja non ne aveva mai viste, ma ricordava le canzoni dei bardi che, di tanto in tanto, arrivavano al villaggio, e che narravano di antichi eroi sepolti nei boschi dentro bare di pietra; cavalieri che avevano combattuto e perso la vita per difendere e magari salvare degli innocenti. Gli occhi le si velarono della malinconia dei ricordi che non vengono mai cancellati dall’anima, ma raddrizzò il capo e passò il dorso della mano a cancellare le prime lacrime che iniziavano a scivolarle lungo le guance. Non doveva, non poteva soccombere ai ricordi. Si chinò a osservare meglio la lastra. I bordi erano stati intagliati in modo abbastanza regolare e la superficie era levigata; passando il palmo della mano sulla pietra, notò un’incisione appena prominente e cercò di guardare meglio attraverso i giochi d’ombra e luce che i rami e i raggi del sole proiettavano sull’ossidiana: un disegno, un’iscrizione o un simbolo, al centro della lastra. Caja ne seguì il contorno con il dito indice e, con un sussulto, ritrasse la mano come se si fosse scottata alle fiamme di un fuoco invisibile. Dai polpastrelli sensibili al suo cervello, venne proiettata un’immagine inconfondibile, quella della luna capovolta.
"L’oscurità sta invadendo il mondo, dov’è il drago dalle ali spezzate? La luce si ritrae, devo trovare la chiave del mondo senza ritorno."
Si guardò intorno sorpresa, senza riconoscere la zona di bosco che la circondava, Caja non ricordava come vi fosse arrivata. Un momento prima stava inginocchiata accanto a una tomba misteriosa e ora si trovava, la ragazzina non sapeva dove si trovasse; le si accapponò la pelle quando, davanti agli occhi, le apparve l’immagine della luna capovolta che aveva visto scolpita sulla lastra d’ossidiana. "Non vuol dire nulla, è solo un simbolo, forse mi sono addormentata e gli incubi mi hanno condotta come una sonnambula per le vie del bosco; ma non posso essermi allontanata di tanto e, se non mi faccio prendere dalla paura, riuscirò a trovare il sentiero per tornare a casa: Nerth dev’essere in pena perché non sono ancora tornata." Istintivamente guardò verso l’alto, il cielo era parzialmente nascosto da un velo grigio; forse nel frattempo si era rannuvolato dando all’ambiente l’atmosfera e i colori del crepuscolo: comunque non era notte e lei aveva il tempo di tornare a casa. Un’altra sensazione si insinuò fra le correnti che sentiva vibrare nella testa, e il sangue le si gelò nelle vene facendo rabbrividire ogni fibra del suo corpo. Le parve di cogliere l’immagine di se stessa che veniva inghiottita da una falla che, improvvisamente, si era aperta nella lastra d’ossidiana che racchiudeva la misteriosa tomba, e le parve di ricordare la sensazione di scivolare dentro la terra, catturata da una forza sconosciuta, e la terra stessa che si richiudeva su di lei come un sepolcro. "Fantasie." Disse a se stessa. Quindi si incamminò alla ricerca di un qualsiasi punto le fosse familiare; camminò di buona lena e instancabile per sfruttare le ultime ore del giorno, mantenendo ben fermi nella mente un tronco, una radice, un arbusto dalle forme particolarmente fantasiose che le avrebbero permesso di rendersi conto se, per caso, stesse girando in tondo tornando ogni volta al punto di partenza, fece mucchietti di pietre che le avrebbero rivelato se in quel luogo ci fosse già passata, ma il tempo trascorreva e lei non riusciva a trovare niente che le potesse indicare la strada per tornare a casa. Caja cominciò ad avere paura. Era certa che fossero trascorse almeno un paio d’ore da quando aveva iniziato a vagabondare in quel posto sconosciuto, eppure la notte era lontana e il crepuscolo era rimasto tale, come se il sole, invisibile oltre quel cielo altrettanto invisibile, avesse arrestato la propria corsa. La foresta diradava e si sentiva il mormorio di un fiume, ormai stanca e rassegnata, Caja si incamminò in quella direzione, pur sapendo che nessun corso d’acqua scorreva vicino alla sua casa. Era poco più di un torrentello oltre il quale cominciava la campagna, la ragazza si tolse gli stivali, sollevò la gonna e vi si immerse per attraversarlo: una corrente violenta l’attraversò da capo a piedi lasciandola intimorita e tremante, ma non era l’effetto dell’acqua gelida. "E’ così strano," parlò a se stessa nel suo linguaggio muto, "sembra quasi di entrare in un altro mondo, come se ne stessi attraversando il confine." Oltre l’altra sponda c’era una grande quercia, nel passarvi accanto, il silenzio fu lacerato da un verso acuto e un poco stridulo: Caja sollevò lo sguardo e fece un balzo indietro, un’enorme civetta nera allargava le sue ali da sopra un ramo, le grandi cornee bianche e sinistre, una visione che la lasciò di sasso lì dov’era, incapace di muoversi. L’uccello agitò le ali e spiccò il volo, la fanciulla non fece in tempo a proteggersi che, nel giro di pochi attimi, un frullare d’ali sbatté contro il suo viso: Caja gridò. Per la prima volta dopo due anni, la voce era uscita dalla sua bocca muta; gridò ancora quando i suoi occhi e quelli della civetta s’incontrarono per brevi istanti, quindi l’uccello cambiò direzione e in breve sparì dalla sua vista. Caja non poteva crederci, aveva paura, paura di provare, paura di tentare e fallire; sibilò una parola, due parole, balbettò nel ricordare come si emettevano i suoni, ma infine riuscì a sussurrare: «Nerth, aiutami, ho tanta paura, questi uomini cattivi vogliono farmi del male.» Sollevò la voce e ripeté la stessa frase, le corde vocali le obbedirono e lei si fece coraggio; la ripeté ancora una volta e una volta ancora, sinché la frase non si trasformò in un grido, in una terrorizzata richiesta d’aiuto mentre, all’improvviso, l’immagine del possente vichingo e della sua ascia fu nuovamente davanti ai suoi occhi spalancati. Caja si lasciò cadere sull’erba di quel luogo sconosciuto, gli stivali dimenticati da una parte e le gonne scomposte, il volto nascosto tra le mani, quasi volesse proteggersi da quella visione, e i capelli che le ricadevano sul viso, umidi delle lacrime che le inondavano gli occhi e che non riusciva a frenare, il corpo scosso dai singhiozzi che non poteva e non voleva controllare; Caja continuò a piangere senza più pensare a niente, piangeva per il terrore che ancora provava e per la liberazione che si avvicinava, poiché quelle parole e quella frase erano il grido che le era morto in gola due anni prima. Si sollevò la brezza e Caja giaceva sull’erba, spossata, addormentata, ma faceva freddo e aprì gli occhi sul crepuscolo rimasto immutato, come se giorno e notte fossero stati banditi; sollevò la testa esponendo le guance al vento che si portò via le ultime lacrime, e le parve di nascere una seconda volta, dal grembo della terra verso l’avvenire, mentre le ferite rimaste aperte si richiudevano per sempre. L’enorme civetta nera lacerò nuovamente il silenzio con i suoi versi acuti e striduli, Caja la vide volare verso di lei e le si accapponò la pelle: « Chi sei? Cosa vuoi da me? » gridò, « Dove vuoi portarmi? » Per sola risposta, il rapace rimase sospeso a pochi metri da lei, fissandola con le pupille scure come un pozzo e le cornee bianche e sinistre. « Sei l’uccello della morte, va via da me, lasciami in pace! » E la civetta planò verso di lei che chiuse gli occhi aspettando di essere trasportata nel mondo da dove non si torna, per poi risalire rapidamente verso l’alto senza neanche sfiorarla; Caja la guardò allontanarsi, rapita dalla maestosità e dalla possanza del rapace, desiderando quasi assomigliarle. « Forse sono già nel regno dei morti, il Mondo Bianco mi ha teso le sue braccia dalla tomba vicino alla quale mi ero inginocchiata e mi ha portata via, senza che me ne avvedessi, per questo qui la luce non cambia mai, il sole e la luna non sorgono e non tramontano, il tempo ha cessato di scorrere ed è sempre crepuscolo; » Caja si guardò intorno come fosse la prima volta, però se l’era immaginato diversamente il Mondo Bianco, la sua fantasia e le parole di sua madre l’avevano dipinto come un mondo di luce, « la luna rovesciata incisa sulla tomba era una disgrazia, qualcosa di terribile dev’essere accaduto a chi era sepolto in quella tomba, e qualcosa di altrettanto terribile è accaduta a me, che ora vago nel Mondo Bianco senza sapere se sono viva o morta. » La civetta ruppe nuovamente la quiete e l’immobilità del crepuscolo e, istintivamente, Caja la seguì.
Le fiamme danzavano davanti ai suoi occhi divorando il crepuscolo, una civetta sbatteva le ali e un’ascia bilama si abbatteva inesorabile su di lei, Michelle annaspò nel magma che la soffocava, strappò i veli che l’avvolgevano come un sudario, si batté come un demonio contro il guardiano impassibile dell’incubo da cui non riusciva a svegliarsi, finché non fu libera e riemerse. La luce, voleva la luce e la vita, allontanarsi da quelle immagini di morte, da quella realtà insensata che si frapponeva ai ricordi, mentre reale e immaginario stringevano fra loro un’alleanza che la faceva uscire di senno: non si sarebbe lasciata nuovamente trascinare in quel mondo di cattivi presagi, la vita era davanti a lei, le bastava tendere una mano per toccarla e liberarsi una volta per tutte di quel crepuscolo. Sbarrò gli occhi dalle palpebre ancora gonfie, la bocca impastata di un fiele che veniva da una falda sotterranea che stentava a riconoscere come propria, contrasse le membra irrigidite dal sonno e dal vento gelido e, finalmente, riuscì a sollevarsi e a rimettersi in piedi; si guardò intorno senza vedere nulla e controllò con un moto di rabbia la paura che la faceva tremare dalla testa ai piedi; lei non era una ragazzina da un pezzo e neppure sciocca. Strinse forte nel pugno l’elsa della spada che portava al fianco, ogni fibra del suo essere sapeva che lei era un animale braccato. Ma da chi? Nella mente i suoi sogni erano ancora troppo vividi e lei vedeva e sentiva con i sensi di Aghna, le ultime parole della ragazzina riverberavano senza requie nel suo cervello stanco, instillandole il dubbio di dove si trovasse, se fosse effettivamente viva o morta e in quale dimensione stesse vagando, inconsapevole fantasma, mentre l’immagine della donna addormentata sotto le pelli di lupo prendeva lentamente il sopravvento su tutte le altre, insieme alla lama di luce che aveva intravisto venire da quel varco. Michelle sapeva di essere a un passo da quel che era veramente accaduto. Un dolore lancinante le lacerò il cuore e la vista: Michelle vide. Vide la collina ricoperta dai corpi di uomini e cavalli, non sapeva se vivi, morti o moribondi e una sola creatura che aveva compiuto quello scempio, un uomo o un demone, non avrebbe saputo dirlo, i capelli rossi come le fiamme dell’inferno e il ghigno beffardo, lo stesso del suo sogno, ma avvolto in una cappa nera che lo faceva rassomigliare a un enorme pipistrello e, dietro di lui, il Drago dalle Ali Spezzate tenuto alla catena come un cane, il drago che lei era venuta a liberare. Madwin il mago aveva giocato sia lei che i suoi compagni, li aveva trascinati dentro la sua rete di magia perversa e ora li costringeva a vagare nell’universo rarefatto alla ricerca di improbabili confini, del varco che li avrebbe condotti nel mondo del non ritorno, a meno che lei non fosse riuscita a liberare il Drago dalle Ali Spezzate, l’unico in grado di riportare la luce. Nessun altro poteva farlo, lei e il drago erano legati dallo stesso sangue, soltanto lei poteva vederlo o sentirne la presenza. Michelle si guardò intorno, adesso le era tutto chiaro, lei era l’animale braccato da Madwin il mago che voleva anche il suo sangue, oltre a quello del drago, per diventare… Nessuno poteva sapere quel che sarebbe diventato, neanche lui. Ma perché non era riuscito a ucciderla? Cosa o chi gliel’aveva impedito? La mano della donna corse al petto, là dove ricordava che il mago l’aveva colpita, a morte, riuscendo però soltanto a gettarla in un mondo di sogni, sperando forse che fossero senza ritorno: il medaglione con la luna capovolta era ancora lì, integro, chiave di volta del proprio essere e del mondo senza ritorno; Madwin avrebbe dovuto riuscire a spezzarlo per poterla colpire al cuore, ma non era facile infrangere l’incantesimo della luna capovolta. Michelle si mosse, consapevole che, il nulla che la circondava, era la nuova realtà di cui avrebbe dovuto cercare la porta, non per uscire, ma per entrare in un mondo ancora più oscuro, il mondo fittizio dove il mago teneva il Drago dalle Ali Spezzate in attesa di poter bere il suo sangue. O lui o lei, non c’era alternativa. Combattendo contro la nausea che il senso di vuoto le provocava, Michelle si costrinse a camminare e cercare finché avesse avuto un barlume di lucidità; le sembrava di galleggiare, di capovolgersi e rotolare in quel mondo senza dimensioni né tempo, in quel mondo di illusioni. Finché dal nulla non emersero i contorni di un portale. Lo attraversava una lama di luce e l’incognita la attendeva oltre, un’incognita fatta di presenze che avrebbero avuto un ruolo nel suo futuro e in quello del suo mondo, poiché Caja e la donna che dormiva sotto le pelli di lupo, erano parti di sé che avrebbe dovuto trovare prima di chiudere il cerchio e liberare il Drago dalle Ali Spezzate. Oppure ogni sforzo si sarebbe rivelato inutile. Michelle sollevò il medaglione e la luna capovolta emise un bagliore e alcune note, mentre con un cigolio sinistro il portale si apriva schiudendo il passo all’oscurità: la donna andò incontro al suo destino.
16/12/2008, Lidia Petrulli