FERRO SETTE

Lo aspettavamo da tempo e finalmente è disponibile in tutte le librerie il primo romanzo di Francesco Troccoli intitolato “Ferro Sette” (320 pagine; 15,90 euro), pubblicato nella “Collana Electi” da Armando Curcio Editore.

Ci troviamo in un futuro remoto: l’umanità ha smarrito le basi della sua stessa natura. Due vecchi commilitoni si ritrovano, nemici. Il primo, Tobruk Ramarren, è una ignara pedina di un potere occulto; il secondo, seguendo un’antica intuizione, si ribella a quella che sembra l’unica vita possibile. Nelle viscere di un piccolo pianeta minerario ai confini dell’Alleanza il protagonista s’imbatterà in una sorprendente comunità di reietti, custodi del segreto che li rende liberi. Lo scontro tra i Dominatori e lo sparuto gruppo di rivoluzionari è inevitabile, così come la sorpresa di Tobruk Ramarren di fronte alla scoperta che gli cambierà la vita.

Il romanzo è una sorprendente visione di un possibile futuro della civiltà del nostro tempo, e di una ribellione che scaturisce dalla natura più segreta e preziosa dell’essere umano. In proposito Lanfranco Fabriani, “Premio Urania” nel 2001 e nel 2004 ha detto: «Un giorno l’umanità potrebbe dover fare i conti con una realtà simile a quella di Ferro Sette. Sarà il momento per riscoprire il Tobruk Ramarren in ognuno di noi».

Francesco Troccoli, è scrittore, traduttore e speaker. Nel bel mezzo di una invidiabile carriera in una multinazionale farmaceutica, cambia vita per  dedicarsi, in gran parte, alla scrittura. Ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il “Giulio Verne” e il “Nella Tela”, ha pubblicato oltre trenta racconti su raccolte e riviste e ricevuto numerosi apprezzamenti della critica. Blogger tra i più attivi del settore in Italia, firma le pagine di «Fantascienza e dintorni» ed è membro del collettivo di autori «La Carboneria letteraria». Quest’anno un suo racconto concorre al Premio Italia per la categoria “racconto professionale”. Francesco, tra le sue tante attività però soprattutto scrive, anche se – come la maggior parte di noi – deve condurre una vita alternativa (che molti si ostinano a definire normale) come impiegato in una grande azienda. Quale migliore evasione della scrittura? Soprattutto se è narrativa fantastica, se la storia ci conduce in un futuro lontanissimo nel quale l’umanità ha perso le basi della sua stessa natura. Ora, non che siamo così lontani da un simile futuro, la fantascienza è sempre stata premonitrice di infausti eventi e purtroppo quasi sempre ci ha azzeccato. Il futuro postatomico, tanto per dire, me lo sento scivolare dietro le spalle, non è roba solo per il cinema, storie come “1997: Fuga da New York” e tante imitazioni italiane alla Enzo G. Castellari potrebbero diventare presto triste realtà.

Il protagonista di “Ferro Sette” cerca la libertà, come ogni uomo che si rispetti, finisce per trovarla nel luogo più impensato, in mezzo a una comunità di reietti che vivono nelle viscere di un piccolo pianeta minerario ai confini dell’Alleanza. Una scoperta che gli cambierà la vita, al punto che prenderà coscienza di molti valori a lui ignoti. La conquista del segreto che rende liberi darà vita a un conflitto tra i Dominatori e il gruppo di rivoluzionari che rappresenta il nucleo fondamentale del romanzo.

Un ottimo lavoro d’esordio che piacerà agli amanti del fantasy e del fantastico, scritto da un blogger molto attivo, animatore del sito internet “Fantascienza e dintorni” che coinvolge diversi appassionati. Scritto con uno stile che non ambisce a essere letterario – ed è un bene perché la narrativa di genere deve restare tale – adatto a un pubblico di ogni età, consigliato per i giovanissimi che cercano narrativa avventurosa e fantastica. L’autore padroneggia il dialogo, si trova a suo agio nel far incedere la narrazione facendo interagire tra loro i personaggi e non lascia pagine morte, prive di eventi importanti da raccontare. L’edizione è di taglio economico, l’editing curato, l’impaginazione senza errori di sorta. Armando Curcio si dimostra editore serio e competente anche nel settore libri.

Siete curiosi? Volete saperne di più? E allora gustatevi alcuni passi tratti da “Ferro Sette”… poi non avrete più scuse!

DAL CAPITOLO I

Il piede destro scivolò sulla roccia coperta di licheni, che la maggior parte dei mondi aveva dimenticato da millenni, e ruotando sul sinistro mi ritrovai con una metà del corpo libera nell’immensità. Sotto di me, un salto di duemila metri. Ondeggiando, ritrovai un appiglio per puro caso.

«Chi diavolo me lo ha fatto fare. Avrei potuto rifiutarmi. Dopotutto sono un veterano». Mi ero ripetuto il pensiero per l’intera durata dell’arrampicata.

La dorsale nord del massiccio di Hebron su Harris IV è una parete molto impegnativa, soprattutto se hai quarantatré anni e sei partito che hai già una gran voglia di tornare a casa. Ma c’era in gioco una quantità di soldi che non mi aveva permesso di esitare quando, tre giorni prima, il vecchio Kala mi aveva offerto quel «simpatico lavoretto».

Era proprio così che lo aveva chiamato. «Una cosa giusta per te, Tobruk. Fottutamente facile».

Mentiva, come al solito, e sapeva che lo sapevo, il che lo divertiva da morire.

Detestavo quell’uomo e la cinica disinvoltura con cui mandava la gente al macello. Aveva sempre usato quella tattica, sin dai tempi in cui era stato un capo-distretto della mafia di Boleda; possedeva un fiuto eccezionale per scovare le persone disposte a fare qualunque cosa gli occorresse. Individui che avevano un disperato bisogno di denaro per lasciare il pianeta, su cui erano stati banditi, o maledetti, oppure per comprarsi la conversione di una condanna a una morte lenta e dolorosa in un’esecuzione rapida e con tanto di sedativi.

Da quando era Governatore del sistema di Harris, il bastardo non aveva cambiato i suoi metodi. Anzi, con la copertura economica dell’Oikos li aveva persino affinati e avvolti in un manto di legalità.

Per fortuna, il tratto verticale era quasi finito. Notai che circa dieci metri sopra la mia testa la parete sembrava interrompersi e giudicai che in quel punto potesse esserci un’inclinazione, che mi avrebbe regalato un cambio di pendenza quanto mai provvidenziale. Era solo una possibilità, naturalmente, ma era più che abbastanza; estrassi la pistola, puntai in alto e sparai un grappino auto-sigillante.

Provai la tenuta del cavo, che era uscito per dodici dei venti metri in dotazione, e decisi che il grappino aveva arpionato una zolla non troppo friabile. La stanchezza non mi lasciava abbastanza lucidità per valutare alternative meno fortunate, e in ogni caso non avevo un’altra strategia per procedere oltre.

Harris IV non lascia mai molte possibilità di cavarsela indenni. Il sistema di cui fa parte è amministrato da una delle sue famiglie più potenti e sanguinarie, gli Harris, appunto, e il quarto pianeta è stato colonizzato da poco più di un secolo. Un pianeta appena terraformato è come un bambino capriccioso e malato: si agita continuamente, piange, sputa e tira calci. E se si incazza sul serio vomita all’improvviso. Lava e massi incandescenti, per lo più, o se non sei tanto fortunato, gas tossici spruzzati da geyser a duecento gradi.

Avevo perso le ventose antigravitazionali duecento metri più in basso e, finché c’erano state quelle, era stato facile come una passeggiata. Riuscii ad azionare i punzoni degli stivali e a forza di calci piantai il piede destro nella parete; mentre scaricavo tutta la forza che mi rimaneva sull’addome per far leva e assumere una posizione eretta, quasi innaturale su una parete tanto ripida, sentii le ossa della schiena scricchiolare in più punti. Mi ricordai dell’aggressione che avevo subito due giorni prima; su Harris IV le voci girano in fretta, ed ero perciò convinto che fosse stata opera dei compari di quelli cui stavo dando la caccia. Ma ero talmente imbottito di tetraetilmorfina che non sentii alcun dolore; prodigi dei farmacologi del Dipartimento di Ricerca dell’Oikos. Mi domando spesso quale meraviglioso mercato nascerà per tutte queste droghe pensate per noi militari: oppiacei potenziati, endorfine di sintesi, derivati della tanatina e stimolatori steroidogenici; proprio un business niente male. Avrei dovuto prenderlo in seria considerazione, con tutta l’esperienza personale che avevo accumulato negli ultimi anni.

Diedi un gran colpo di reni che in altre circostanze mi avrebbe costretto a mollare la presa sul cavo e prendere il volo nel vuoto, e finalmente riuscii a muovere i primi passi. Dopo essere avanzato ancora, mi resi conto che avevo visto giusto: il tratto verticale era finito e mi trovavo sul ciglio di un gradone quasi orizzontale, con un lieve pendio, che per la felicità mi sembrò placido come una spianata per turisti pazzi in cerca di facili abbronzature sotto i tre soli di Harris. Riacquistai una posizione verticale, mantenendo stretto il cavo. Poi allungai le braccia sulla terra nera e mi tirai su, felice come un bambino che è riuscito a salire sul letto del papà per la prima volta. Quando entrambe le ginocchia furono saldamente poggiate sul piano, mi lasciai andare e rotolai per qualche metro. Riavvolsi il cavo nella pistola e la misi via nello zaino, poi estrassi il Mariner.

La parte peggiore era passata. Secondo il Mariner, l’ingresso della grotta era a circa una lega, nel punto in cui alla fine del gradone iniziava un’altra parete, a cui stavolta avrei mandato le mie maledizioni dal basso. Dannati vulcani.

Guardai il cielo e ciò che vidi non prometteva nulla di buono. Su Harris IV una mappa satellitare è valida per non più di qualche giorno, a volte anche meno. Frane, smottamenti, valanghe, eruzioni e tempeste modificano continuamente l’orografia del territorio, e per essere certo che quel che leggi è corretto sei costretto a fare continuamente il download degli aggiornamenti. Ce n’è uno ogni sei ore. Ma io non ne avevo avuto il tempo.

«Una cosa giusta per te, Tobruk. Fottutamente facile».

Sentii il torrente di calore avvampare su ogni centimetro quadrato di pelle esposta all’aria, ma non attesi che superasse i miei abiti per capire e mettermi a correre come un disperato. Dovevo avere un paio di costole rotte, ma non me ne accorsi nemmeno; la tetraetilmorfina stava facendo egregiamente il suo lavoro. Le mie gambe avevano preceduto il mio cervello e correvo oltre i miei limiti.

Decisi di riposare, un’ora al massimo.

«Chi diavolo me lo ha fatto fare».

Secondo gli ultimi rapporti che Kala aveva ricevuto dalle sue spie, la confraternita di Hobbes prosperava nel cuore della montagna. Erano anni che il vecchio figlio di puttana gli dava la caccia. Nonostante tutto, il Governatore era un tipo tollerante, e anzi con le tribù, i gruppi, le sette e le fazioni disseminate su Harris IV il vecchio intratteneva una fitta rete di rapporti diplomatici che gli consentivano un controllo capillare del pianeta. Ma c’era una regola di base alla quale nessuno poteva sottrarsi, una sola inderogabile legge nella quale l’intero, banale ma efficiente modello sociale di Harris IV aveva le sue fondamenta.

E Hobbes aveva violato quella legge. La legge della produzione.

DAL CAPITOLO XXI

Non mi spaventava quel che vedevo: ci ero abituato. Ma l’acqua cambiava tutto. Nell’acqua i loro occhi avevano conservato l’immagine degli ultimi istanti della loro vita e me la scaraventavano addosso.

È solo un’altra guerra, Tobruk Ramarren.

A quanto pareva, erano i soli rimasti intrappolati all’interno. Sperai che gli altri fossero riusciti a mettersi in salvo. Sembravano giovani. La donna teneva l’uomo stretto a sé, come se avesse voluto proteggerlo. Mi chiesi se lui non fosse già morto mentre lo faceva. Forse fu una suggestione, ma fui quasi certo di aver conosciuto di persona quei due ragazzi. A suo tempo, nella miniera. Cercai di rammentare i loro nomi e non ci riuscii, ma qualcosa mi si strinse nella pancia. Poi soggiunse il ricordo del racconto di Laureel e mi chiesi se anche quei due sfortunati fossero longevi, come il vecchio, o semplici mortali, come me.

No, figliolo. Non fare questo. Ti ho detto di David e di me. Nessuno sia marchiato, in alcun modo. Non riaprire vecchie ferite.

In un certo modo, li avevo conosciuti tutti i minatori di Ferro Sette. Dal primo giorno in cui ero entrato laggiù. Dalla prima volta in cui l’orrore per quello che mi era sembrato un mostruoso esperimento collettivo aveva ostacolato l’emergere della certezza di trovarmi di fronte a qualcosa che avrebbe segnato la storia dell’umanità e restituito dignità alla mia esistenza.

Davanti a me c’erano due esseri umani privi di vita, stretti l’uno all’altra. Appartenere a una casta eletta non poteva fruttare l’impunità di fronte alla morte o conferire maggior valore all’esistenza. Lunga o breve che fosse.

E così, sul fondo del mare che Hobbes aveva costretto Harris IV a partorire, scoprii il motivo che ispirava la sola guerra in tutta la mia vita che meritasse di esser fatta.

L’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

Ritirai il braccio del Korp fuori dalla trappola che aveva imprigionato gli amanti e mi allontanai. Seguendo la risalita del fondale iniziai a tornare verso la superficie. Avevo bisogno d’aria.

Emersi in mezzo a un groviglio di licheni che il mare aveva strappato alla terra e che formavano un tappeto galleggiante che avvolgeva l’isolotto, poco più di uno sperone di roccia di una dozzina di metri di altezza, che era stato la cima della collina sommersa.

Mi diressi verso la riva e quando fui in secco mi guardai intorno. Orientarsi era diventato difficile. Il livello del Che-non-c’è aveva cambiato i punti di riferimento, facendo avvenire in pochi giorni qualcosa che la natura, se non fosse stata imbrigliata dalla famiglia Harris, avrebbe potuto produrre solo in molti anni.

Quel mare era un sistema instabile in un pianeta instabile. E io ero nel mezzo.

Diedi a quel luogo il nome di isola rossa, per il colore che il lichene aveva trasferito all’acqua delle sue rive. Sembrava che la forma vegetale più diffusa su Harris IV reagisse piuttosto bene al nuovo ambiente in cui era stata costretta. La natura si adatta a tutto; per Harris IV, intrappolato da sempre nelle maglie di uno sfruttamento cieco e senza alternative, questa non era certo una novità.

Mi guardai intorno: in qualunque direzione mi rivolgessi, la terra emersa, con i suoi vulcani e le sue vette, non sembrava lontana, ma di Saddar City ancora non c’era traccia. Uscii dalla crisalide, che si ripiegò docilmente su se stessa, e mi misi a controllare la pistola e le provviste.

Avevo passato diverse ore sott’acqua, era ormai sera e faceva un gran freddo. Il vento schiaffeggiava l’isola e sollevava una terra umida e pungente. Eppure, nelle pause fra una raffica e l’altra, mi parve di udire un lontanissimo sibilo. Il mare mi porgeva rumori che prima non conoscevo, lo sciabordio dell’acqua sulle rocce, il frangersi lento delle onde a riva, ma quello non era un rumore naturale.

Il sibilo crebbe all’improvviso e, voltatomi di getto nella direzione da cui mi parve che provenisse, feci appena in tempo a gettarmi a terra per non essere travolto. Caddi sul lato sinistro, schiacciando il braccio e la mano che stringeva la pistola; il dito indice, per riflesso o perché premuto, azionò il grilletto; l’impulso che partì mi sfiorò il piede e mandò in briciole un grosso sasso a qualche metro.

Bentornato a Haddaiko, Tobruk Ramarren!

Non tanto per la rabbia, quanto per il dolore che avvertii, lanciai un grido. Il braccio sinistro si era rotto.

Rimasi in terra e con un colpo di reni mi distesi a fatica sulla pancia. Poi riuscii a trasferire la pistola nella mano destra e cercai di prendere la mira nella direzione della sua fuga, ma il misterioso aggressore sembrava svanito. Attesi qualche istante, ma appena iniziai a rialzarmi lo udii provenire dalla direzione in cui era fuggito, e di nuovo mi incollai alla terra umida. Mi sorvolò radente per la seconda volta e di nuovo non ebbi modo di reagire. Stavolta, però, vidi una macchia bianca puntiforme correre via sullo specchio grigio del mare.

Non speravo che sarebbe stato tanto stupido da tentare un terzo passaggio. Questa volta ero pronto, sparai e lo centrai mentre passava a pochi metri sopra la mia testa. Ne fui certo dalla scia nera che liberava mentre scivolava via e dalla deflagrazione che vidi a un centinaio di metri, sull’acqua. Poco prima, però, qualcuno si era sganciato dalla cosa che mi aveva attaccato. Balzai nel Korp tenendomi il braccio. La crisalide mi imbottì di sedativi e gli fui addosso.

Il corpo dell’aggressore galleggiava riverso. Pensai che fosse morto. Il mio nemico era poco più che un bambino. E stavolta ero certo di conoscerlo.

Si trattava di Akhmed, il piccolo guardiano che avevo terrorizzato mettendogli una bomba fra i testicoli il giorno in cui ero penetrato a Ferro Sette. Durante il soggiorno in miniera non lo avevo più rivisto ed ero convinto che fosse perché si vergognava di quello che gli avevo fatto passare. Gi avrei chiesto volentieri di perdonarmi, ma forse la mia punizione consistette nel non concedermi mai la possibilità di farlo. A quanto pareva, in tutto quel tempo non aveva imparato molto su come si fa una guerra. Per fortuna non lo avevo ucciso. La crisalide misurò segni vitali che tutto considerato risultarono normali.

[...] Quando si riprese, Akhmed parve smarrito. Per qualche minuto temetti che l’incidente gli avesse causato danni permanenti. Lo vidi abbandonarsi davanti al fuoco, la bocca socchiusa, gli occhi immobili,  che riflettevano le fiamme tremolanti. Sembrava un neofita alla prima dose di tetraetimorfina.

«Ragazzo», gli dissi.

Mi alzai, mi avvicinai e mi chinai davanti a lui.

«Akhmed. Mi riconosci?».

I miei occhi erano all’altezza dei suoi, ma non mi vedeva affatto.

«Akhmed. Sono Tobruk Ramarren. Ti ricordi di me?».

Quando dissi il mio nome, ebbi l’illusione che qualcosa nel suo sguardo si fosse mosso.

Cercai di imitare la mia stessa voce deformata del giorno in cui, con il detonatore della finta bomba stretto in bocca, lo avevo crudelmente convinto che avrei potuto essere il responsabile della sua precoce evirazione. Mi misi la lingua fra i denti e lo schernii: «Quefto affare fi attiva con un semplice morfo» dissi, pensando di essere divertente. In qualche modo la cosa funzionò, ma non nel modo che speravo.

Akhmed si svegliò dal torpore, emise un grido animalesco e mi saltò addosso, avvinghiandosi a me con gambe e braccia. Usò ogni parte del suo corpo per tentare di ferirmi. Ginocchia, unghie, denti. Era uscito dal cortocircuito e la sua mente era ancora a bordo della navetta di fortuna con cui, fra planate e virate sul mare, si era accanito contro un nemico inatteso. Staccai da me la piccola sanguisuga, lo scaraventai a terra e gli bloccai braccia e gambe.

«Akhmed! Hai capito chi sono, maledizione?», gridai.

Ci volle qualche minuto perché il suo respiro iniziasse a rallentare, e per puro sfinimento.

«Tu! Tu sei un miliziano!», disse infine in preda al panico, rantolando e gemendo.

«Ti ho già detto chi sono. Il mio nome è Tobruk Ramarren e tu mi conosci. Sono un amico del tuo capo, David Hobbes».

«Ma, ma… tu sei anche un miliziano!».

«Lo ero, Akhmed. Molto tempo fa. Adesso sono dalla tua parte. Sono qui per aiutarvi».

«No! Io non ti credo! Tu sei una spia. Me lo avevano detto. Avevano detto che forse saresti tornato… per ucciderci!», il ragazzo non riusciva a tornare in sé e pianse. A tratti scalciava e si divincolava. Lo lasciai consumare la poca energia che gli era rimasta.

«Chi ti ha detto questo, Akhmed?».

«Tu sei una spia!», gridò ancora.

 

Il resto lo trovate naturalmente in “Ferro Sette”: buona lettura.

Davide Longoni & Gordiano Lupi