SHAMANDALA 05: LA VERA STORIA DI IDROPANTE

Quando credi di essere un eroe, Dio ti punisce ricordandoti che sei solo un uomo ed è questo che è successo a me. Sono morto in un modo ridicolo, se si pensa al valore con cui ho affrontato la mia avventura terrena. I miei discendenti credono che io sia deceduto in una battaglia e per certi versi è così, l’unico dettaglio, che è stato accuratamente omesso nel libro sulla mia famiglia, è che sono scappato dalla mischia, consapevole che non ce l’avrei fatta. Avevo circa quarantacinque anni, avevo avuto una moglie che mi aveva lasciato da giovane, dando alla luce la mia ultima figlia, Menarbia. Possedevo un castello e dei terreni, che mi erano stati donati da Carlo, il mio imperatore, come premio ai miei servigi. I miei due figli più grandi, Isoardo e Ildeberto, avevano lasciato la mia dimora per prepararsi al meglio alla loro vita, andando a studiare alla corte del mio imperatore. Solo mia figlia era rimasta a casa con me: aveva a quell’epoca circa dodici anni e non poteva sentire la mancanza della madre sia perché non l’aveva mai conosciuta sia perché Shamandala era sempre con lei, insegnandole a leggere e scrivere e ricamare. I miei servitori pensavano che la Strega fosse la mia concubina, ma non me ne importava, io e lei sapevamo il rapporto di amicizia profonda che ormai ci legava ed è stato grazie a lei che in molte occasioni sono riuscito a riportare a casa la pelle.  Questo non successe quella notte che decisi di andare a fare una cavalcata nei miei poderi. Era una notte buia, la luna non aveva ancora fatto capolino dalle nubi cariche di pioggia che si muovevano nel cielo. L’aria era fresca  e trasportava la brezza tipica dei grandi temporali. Qualche volta si poteva vedere nel cielo qualche fulmine spaventoso e la mia ferita doleva in un modo incredibile, come non era mai successo prima. Tuttavia ero deciso a concludere quel giro e così frustai il mio destriero per farlo correre più veloce. Ad un tratto vidi dalla campagna arrivare orde di esseri rantolanti che si trascinavano verso di me, strabuzzando gli occhi, chi li possedeva ancora, e sputando denti. Mi fermai e cercai con la mano nella mia saccoccia la scatola di madreperla, qualora  fosse stato necessario, l’avrei avuta a portata di mano. I fulmini si fecero più minacciosi e li vedevo cadere in mezzo alla campagna. Il mio cavallo s’imbizzarrì quando una saetta diede fuoco ad un albero poco distante da noi e mi fece cadere, incidente che mi causò la rottura del mio osso del collo. Fu una morte rapidissima e senza dolori fisici, quello che mi ero sempre augurato, ma fu strano all’inizio capire quanto mi stava succedendo.  Ricordo di essermi alzato in piedi e di aver visto accanto a me il mio corpo, la mia faccia con gli occhi spalancati e senza espressione. La scatola di madreperla era lì vicino a quello che restava di me e il mio cavallo era scappato sempre più impaurito, strappando la gualdrappa nei rovi. Intanto gli spiriti, che dovevano far parte di qualche esercito ormai sconfitto da secoli, si stavano avvicinando e sembravano avere delle intenzioni bellicose. Dov’era finita tutta la mia baldanza? Mi resi conto che ero loro pari, non avrei potuto imprigionarli e non avrei potuto difendermi. In più ero solo, la Strega non si era fatta vedere e a me non rimase che cercare di prendere la scatola e scappare verso il mio castello. Non ci riuscii: la mia mano la attraversava e rimaneva poco tempo, i fantasmi erano alle mie spalle. Scappai e, mentre correvo, pensavo all’onta che mi stava ricoprendo, non ero mai fuggito per paura in tutta la mia vita e se anche in quel momento mi ritrovavo dall’altra parte, consideravo gravissimo quel mio comportamento.

Entri nel rivellino attraversando il ponte levatoio, che veniva calato per permettere agli armigeri di entrare nel castello, lo attraversai e salii al piano superiore, dove si trovava la camera della mia bambina e dove ero sicuro di trovare Shamandala intenta a ricamare alla luce di una candela. La trovai invece sulla scala che mi aspettava: aveva tra le mani la mia scatola e, prendendomi per mano, mi portò nella stanza di mia figlia, che dormiva tranquillamente.

« Come farà la mia figliola senza di me, ora che i suoi fratelli sono ad Aquisgrana? Sai bene che non ho parenti e che non mi fido di nessuno. Ho sempre paura che qualche stregone attacchi i miei figli per arrivare a me.» « Non preoccuparti per la giovane Menarbia. E’ vero, è ancora una bambina, ma è la persona più adatta a portare avanti il tuo compito. Ora la sveglierò e le parleremo».

Ricordo ancora le lacrime calde che la mia dolce ragazzina versò quando la Strega le disse che non c’ero più. Pianse per tutta la notte, mentre Shamandala le raccontava come mi ero procurato la ferita che aveva lasciato quell’orrendo segno sulla mia fronte e di quella che era stata la mia attività fino alla mia morte. Anche lei poteva sentirla, così come l’avevo sentita io in tutti quegli anni, ma per tutta quella notte non poté vedermi, finché Shamandala non mi prese per mano e Menarbia mi vide. Il nostro saluto fu triste, ci abbracciamo e parlammo di tutto, del passato, del futuro e del compito che lei avrebbe dovuto portare avanti al mio posto, mentre la Strega le porgeva la scatola di madreperla. Avrebbe poi continuato il suo figlio più intelligente, perché di spiriti errabondi ce ne sarebbero sempre stati e la nostra missione non poteva avere un termine. Mi chiese se l’avrei abbandonata e le dissi che no, non l’avrei mai fatto e da quel momento, quando lei divenne la Cacciatrice, la aiutai in molte occasioni, insegnandole come fare e a come non avere paura di quegli esseri orrendi che venivano a tirarle i capelli. Fui presente anche quando passò l’incarico e la scatola  al suo primo figlio Lothario e mi feci vedere anche da lui ma molto meno frequentemente, fino a sparire del tutto dalla vita dei miei discendenti. Sapevo che mi sarei fatto vedere di nuovo dalla Cacciatrice della Profezia, che doveva ancora venire.

Appena morto le nebbie del segreto che avvolgevano le mie origini sparirono: scoprii che il motivo per cui i Durpazi non si erano più occupati di Shamandala stava nel fatto che lei aveva deciso di prendersi cura di me e dei miei discendenti. Mia madre, Radegonda, era una delle concubine di Pipino, il padre dell’imperatore Carlo, ed era una delle più belle donne della corte, con i suoi capelli lunghissimi color del grano maturo e la sua figura longilinea. Era stata allontanata dall’accampamento reale per volontà della regina,la legittima moglie di Pipino, che era invidiosa della sua bellezza e del fatto che quest’ultimo passasse più tempo con l’amante che con lei. La accusò pubblicamente di essere una strega, di praticare la magia nera e la fece cacciare lontana. Fu in quella circostanza che Radegonda venne scelta dai Durpazi, che le apparvero tutti insieme durante una notte di luna piena e le preannunciarono che sarebbe tornata all’interno della sua comunità con il compito di leggere il futuro della sua gente nel fuoco e nella cera che colava dai candelabri. Le dissero che avrebbe avuto anche molto potere e che sarebbe stata circondata da persone pronta a servirla, che si sarebbe potuta vendicare della regina che l’aveva mandata via. Radegonda, che sapeva già di essere incinta, rifiutò quanto le veniva proposto, e gli Dei dei Ghiacci  presero questo rifiuto come un atto di disobbedienza ingiustificabile. Maledirono lei e anche il bambino che non era ancora nato, condannandoli ad una vita di stenti. Lei morì dopo qualche tempo, poco prima che si spegnesse anche il suo antico amante, che fece promettere a Carlo di prendersi cura del suo fratellastro, io. Il futuro imperatore mi fece crescere come un cavaliere e ricompensò sempre generosamente i miei servizi, mi trattò con la dolcezza e l’affetto che solo un fratello può nutrire per un suo congiunto. Dopo il mio terribile ferimento mi affidò alle cura della sua strega più fidata, Shamandala, che continua ora il suo compito con la mia discendenza.

Roberta Lilliu