E’ sicuramente il personaggio più famoso e che meglio incarna lo spirito di Robert Ervin Howard, scrittore di origine texana vissuto nei primi trentenni del secolo scorso ed inventore del sottogenere fantastico denominato heroic fantasy. Vediamo di sviscerare al meglio la figura di Conan il cimmero.
BREVE STORIA INFORMALE DI CONAN IL CIMMERO
Siamo nell’Era Hyboriana, una immaginaria epoca collocata tra la caduta di Atlantide e la nostra civiltà, circa 12mila anni fa. In quel tempo, creato dalla fervida fantasia di Robert Ervin Howard, scrittore texano vissuto nel primo trentennio del Novecento, uno su tutti era il nome che si levava in quanto a fama e gloria, quello di Conan il cimmero. Eccovi il racconto della sua vita, ispirato all’articolo “Una storia informale di Conan il cimmero” di Miller e Clark.
Conan, figlio di un fabbro della Cimmeria, nacque su un campo di battaglia di qual paese montuoso. Giovanissimo prese parte al saccheggio di Venarium, postazione aquiloniana di frontiera. In seguito, durante una scorreria nell’Hyperborea insieme ad una banda di Aesir, fu catturato dagli hyperboreani.
Fuggito dal recinto degli schiavi, vagò a sud, a Zamora e nei paesi vicini, facendo il ladro per procurarsi stentatamente da vivere. Nuovo alla civiltà e praticamente senza legge per carattere, egli ovviò alla mancanza di astuzia e di sottigliezza con la sagacia istintiva e la forza erculea ereditata dal padre.
Poi entrò a far parte, come mercenario, dell’esercito di re Yildiz di Turan. Viaggiò molto in Hyrkania, impratichendosi nell’uso dell’arco e nell’arte dell’equitazione.
Più tardi fu comandante delle truppe mercenarie nei regni hyboriani, navigò alla testa di una banda di corsari neri, insieme alla loro regina Belit, lungo le coste di Kush e fece il mercenario nello Shem e nelle nazioni vicine.
Quindi divenne capo dei Kozaki, un’orda di fuorilegge delle steppe orientali, e dei pirati del mare di Vilayet.
Dopo aver prestato servizio come mercenario nel regno di Khauran, guidò per due anni gli Zuagiri, tribù nomade delle terre orientali dello Shem. Visse selvagge avventure nelle nazioni dell’est, in Iranistan e in Vendhya, nel corso delle quali dovette fronteggiare i Neri Veggenti di Yimsha sulla montagne Himeliane.
Tornato in occidente, egli divenne predone con i pirati barachani e i bucanieri zingarani.
Prestò poi servizio tra le truppe mercenarie di Stygia e dei Regni Neri.
Si avventurò nelle regioni a nord di Aquilonia e a 40 anni diventò esploratore lungo la frontiera pitta. Quando i Pitti, con l’aiuto dello stregone Zogar Sag, attaccarono gli insediamenti aquiloniani, Conan tentò invano di evitare la distruzione di Forte Tuscelan, ma riuscì comunque a salvare la vita a un gran numero di coloni insediati tra il Fiume del Tuono e il Fiume Nero.
Dopo aver fatto carriera nell’esercito aquiloniano, riuscì finalmente a sconfiggere definitivamente i Pitti nella battaglia di Velitrium.
Tornato vincitore a Tarantia, capitale di Aquilonia, destò i sospetti di re Numedide che lo condannò a morte.
Riuscito a scappare e scoppiata la rivolta, Conan uccise il re e si incoronò re di Aquilonia, il più potente regno dell’Era Hyboriana.
Ma la vita di corte non faceva per lui, abituato com’era alla vita selvaggia, senza contare il fatto che i nemici s’insediavano ovunque sia tra i cortigiani sia tra gli alleati.
Così Conan se ne andò, per tornare però poco dopo a riprendersi il regno. Quindi si scelse una regina, Zenobia, dalla quale ebbe un figlio, Conan II detto Conn, ma la tradizione vuole che dopo seguissero altri due maschi ed una femmina.
Quando Zenobia fu rapita da un demone, Conan, nonostante avesse superato ormai la sessantina, non esitò ad abdicare momentaneamente in favore del figlio Conn (che per un certo periodo si era anche ribellato al padre e si era recato in oriente a cercare fortuna, ma poi era tornato più forte e maturo che mai) per cercare la sua sposa.
Alla morte di Zenobia, la vita di Conan si svuotò improvvisamente: il vecchio re non faceva altro che stare in biblioteca a studiare misteriosi e strabilianti resoconti di viaggi nella terra d’Occidente.
Alla fine gli si presentò l’occasione di cambiare vita: una profezia, una catastrofe ed un vecchio amico, Sigurd detto il Barbarossa, lo condussero là dove nessun uomo dell’Era Hyboriana era mai stato, nella terra al di là dell’Oceano Occidentale. Qui egli ebbe una fantastica avventura nella terra degli avi dei popoli sudamericani… poi non si ebbero più sue notizie e Conan divenne leggenda.
FILOSOFIA DI UN GUERRIERO
Conan ha una filosofia di vita ben precisa che si può riassumere con le sue stesse parole, tratte da “La regina della Costa Nera”: “Io voglio vivere appieno, finché vivo. Mi basta conoscere il ricco sapore della carne rossa e del vino che mi punge il palato, il caldo abbraccio di braccia bianche, la folle esultanza della battaglia, quando le spade azzurrine guizzano e si arrossano, e io sono contento. Che sacerdoti e maestri e filosofi meditino pure sulla realtà e sulle illusioni. Io so questo: se la vita è illusione, allora anch’io sono illusione, ed essendolo, l’illusione per me è reale. Io vivo, brucio di vita, amo, uccido e sono contento”.
Un modo ferino, selvaggio, ma sostanzialmente sereno di guardare l’esistenza?
Conan non è un personaggio sereno, come del resto non lo era Howard.
Infatti poche righe più sopra egli fa dire al cimmero: “Il capo dei miei dei è Crom. Abita in una grande montagna, ma perché invocarlo? Ben poco gli importa se gli uomini vivono o muoiono. E’ spietato e senza amore, ma alla nascita soffia nell’anima dell’uomo il potere di lottare e uccidere. Cos’altro dovrebbero chiedere gli uomini agli dei?”. E quando Belit, la regina dei Pirati Neri e sua amante, gli chiede se c’è almeno speranza dopo la morte, Conan le risponde: “Non c’è speranza né qui né dopo, nel culto del mio popolo. In questo mondo gli uomini lottano e soffrono invano, trovando piacere solo nella lucente follia della battaglia; morendo, le loro anime entrano in un reame grigio e nebbioso di nuvole e venti gelidi, per vagare tristemente nell’eternità”.
Un eroe negativo, dunque?
Per niente. Conan è piuttosto una personificazione dell’istinto, delle pulsioni che eludono ogni razionalizzazione; le sue avventure ripropongono il tema costante dell’uomo che corre verso il destino, utilizzando toni picareschi a volte, timbri cupi e disperati altre ed esplosioni selvagge altre ancora.
L’universo di Howard non è un mondo facile, ma prettamente meccanicistico: egli è un romantico consapevole di trovarsi in un limbo di non-ideali e ciò peserà molto nella sua vita tanto di uomo quanto di scrittore.
In due lettere indirizzate all’amico scrittore Clark Ashton Smith (autore, fra gli altri, dei cicli di “Zotique”, “Averoigne” e “Hyperborea” – da quest’ultimo tra l’altro Robert prese il nome di uno dei fantastici regni dell’era di Conan), datate il 14 dicembre 1933 e il 23 luglio 1935, Howard così spiegava i motivi che lo avevano portato a creare Conan: “Anche se non arriverei a dire che dei racconti possano essere ispirati da spiriti o da potenze realmente esistenti (ma mi sono sempre rifiutato di negare a priori qualcosa), a volte mi sono chiesto se non sia possibile che delle forze sconosciute del presente o del passato – o anche del futuro, forse – si manifestino mediante i pensieri e le azioni degli uomini viventi. La cosa mi ha colpito soprattutto quando scrivevo le prime storie della serie di Conan. Per mesi mi ero trovato assolutamente privo di idee, del tutto incapace di scrivere qualcosa di vendibile. Poi l’uomo Conan parve crescermi d’improvviso nella mente, senza alcuna fatica da parte mia: immediatamente un fiotto di storie mi fluì dalla penna (anzi, dalla macchina da scrivere), senza sforzo. Non mi pareva di inventare delle storie, ma di raccontare dei fatti che avessi visto succedere. Un episodio si accavallava all’altro, e facevo perfino fatica a star loro dietro. Per settimane intere non feci altro che continuare a scrivere avventure di Conan. Il personaggio aveva preso pieno possesso della mia mente, e allontanava ogni altra idea per altri tipi di storie. Quando cercavo deliberatamente di scrivere qualcosa di diverso, non riuscivo a scriverlo. Non voglio spiegare tutto ciò ricorrendo a faccende occulte o esoteriche, ma resta il fatto che le cose stavano proprio così. Ancor oggi scrivo le storie di Conan con maggior vigore e maggiore comprensione che le storie degli altri miei personaggi. Ma arriverà probabilmente il momento in cui scoprirò improvvisamente di non riuscire più a scrivere di lui in modo convincente. La cosa mi è già successa nel passato con alcuni dei personaggi da me creati. Bruscamente scopro di aver perso il contatto con l’idea stessa, come se l’uomo di cui scrivevo fosse rimasto al mio fianco e avesse diretto le mie parole, e poi si fosse voltato improvvisamente e se ne fosse andato, lasciandomi lì a cercare un altro personaggio che lo sostituisse”.
E nella seconda lettera: “Può parere assurdo collegare la parola realismo a Conan, ma in effetti – tolte le avventure sovrannaturali – è il personaggio più realistico che io abbia mai creato. E’ semplicemente una combinazione di un certo numero di persone da me conosciute, e credo che sia questo il motivo che lo ha fatto approdare già bell’e fatto nella mia mente quando scrivevo la prima delle sue storie (“La fenice sulla lama”, ndr). Qualche meccanismo del mio subconscio ha preso le caratteristiche dominanti di vari pugili, pistoleri, contrabbandieri, giocatori d’azzardo, e anche onesti lavoratori da me conosciuti, e, combinando tra loro tali caratteristiche, ha prodotto l’amalgama che io chiamo Conan il cimmero”.
LE CRONACHE NEMEDIANE E L’ERA HYBORIANA
Quando Howard scrisse il primo racconto di Conan, come già detto si intitolava “La fenice sulla lama” (nato fra l’altro dalla rielaborazione del racconto “Quest’ascia è il mio scettro” di Kull di Valusia), decise di introdurre il nostro eroe in una immaginaria e fantastica epoca denominata Era Hyboriana, la cui eco si è persa negli oscuri abissi del passato, ai tempi dell’Età delle Leggende.
In base a quanto codificato da Howard nello pseudo-saggio “L’Era Hyboriana”, l’opera letteraria più famosa di quel periodo è costituita dalle “Cronache Nemediane”: in parte poema eroico, in parte raccolta di tradizioni orali, in parte opera storica. E’ difficile dire quando sia stata composta: secondo alcuni in epoca relativamente tarda, in una delle corti d’Irlanda che ancora tramandavano della terribile lotta tra Fomoriani e Nemediani, gli antichissimi invasori dell’isola; secondo altri, invece, deriverebbe da un cospicuo nucleo di poesie composte proprio nell’Era Hyboriana. I Celti, in tal caso, non sarebbero che i compilatori e gli ordinatori della materia.
Le discussioni dei teorici hanno come centro uno dei versi più famosi del poema, quello che recita: “Sappi, o principe, che negli anni compresi tra l’inabissamento di Atlantide e delle città ingioiellate e l’avvento dei figli di Aryas, ci fu un’epoca d’ineguagliabile bellezza…” con quel che segue. Lyon Sprague de Camp, uno dei successori di Howard nella stesura letteraria della lunga saga del cimiero, osserva: “Non è possibile stabilire se Aryas sia un individuo o se la frase non alluda invece a un popolo o a una nazione”. Se Aryas si deve mettere in relazione con la mitica stirpe Ariana (la razza di discendenza “vanir, aesir e cimmera che conquistò vaste regioni dell’Europa e dell’Asia dopo che Pitti e Hyrkani ebbero rovesciato le nazioni hyboriane, e dopo che un’immane catastrofe naturale ebbe fatto sprofondare la maggior parte delle vecchie terre” di quell’era di mezzo), ecco che le “Cronache Nemediane” si rivelerebbero certamente di origine post-cataclismica. Il poeta autore dell’opera sapeva della distruzione del continente hyboriano e dell’avvento degli ariani, tutti fatti che accaddero dopo l’Età delle Leggende. Se invece Aryas restasse una figura mitica del panorama pre-cataclismico, di nuovo sarebbe lecito credere in una redazione antidiluviana delle “Cronache Nemediane”.
Comunque sia, il poema ci riporta a un’epoca lontanissima dalla nostra, quando nell’Oceano Atlantico, nel Mare del Nord e nel Mediterraneo sorgevano terre che successivamente s’inabissarono, quando “tutti gli uomini erano forti, tutte le donne bellissime e la vita era tutta un’avventura” e quando infine “la magia era una forza operante” nella vita di tutti i giorni.
L’epoca in questione è detta Era Hyboriana da nome di una popolazione del nord, che, progredendo dalla barbarie alla civiltà, fondò una costellazione di regni dai nomi esotici: “Nemedia, Ophir, Brythunia, e Hyperborea, e Zingara dalla potente cavalleria e Aquilonia che dominava incontrastata sull’occidente ricco di sogni”.
L’eroe di questa età favolosa, secondo il poema, non fu però un hyboriano, ma un cimmero: il suo nome era, appunto, Conan.
Ciò che resta delle “Cronache Nemediane” (o meglio ciò che Howard ci dice sia rimasto) è veramente troppo poco per azzardare un’ipotesi sul disegno complessivo dell’opera, ma è certo che le gesta di Conan ne occupassero una vasta parte, quella centrale.
I filologi reputano che la prima parte narrasse della Fase Antica dell’Età delle Leggende, quella pre-hyboriana, quando Atlantide non si era ancora inabissata e il continente principale si chiamava Thuria. La seconda parte, o Conanea, riguarderebbe le imprese del cimmero e la terza arriverebbe al tramonto della civiltà hyboriana.
I sostenitori dell’origine celtica del poema pensano che vi fosse una quarta parte che collegava gli eventi pre-cataclismici alla storia dell’antica Irlanda, un po’ come la “Historia Regum Britanniae” di Goffredo di Monmouth (opera riguardante l’Inghilterra) collega la leggenda di Troia con i fatti delle isole atlantiche. Secondo questi critici, il “Tain Bo Cualnge” irlandese conterrebbe elementi delle “Cronache Nemediane”. Benché il poema ci sia pervenuto in una redazione irlandese molto lacunosa (circa XI secolo), gli storici se ne sono serviti per suddividere come segue l’Età delle Leggende:
- Fase Antica (Early Legendary Epoch) circa 25.000/18.000 a.C.;
- Fase Media (Middle Legendary Epoch o Hyborian Age) circa 17.000/12.000 a.C.;
- Fase Tarda (Late Legendary Epoch) circa 11.000/10.000 a.C.
Conan fiorì nella seconda, che tra l’altro è anche la meglio documentata, in base ai 5.000 versi in nostro possesso delle Cronache.
Da Howard in poi tutti hanno attinto da questi versi, trovando sempre episodi collaterali, trascurati o dimenticati che valesse la pena raccontare sul conto del cimmero. Questo spiega le differenze non trascurabili esistenti fra i vari Conan, anche se tutti rientrano nella stessa tradizione: in parte sono dovute al temperamento dei vari adattatori, ma in parte si tratta di discrepanze alla fonte.
Si può quindi parlare di numerosi Conan, ma il più fedele allo stampo originario, cioè quello di Howard, è probabilmente quello dovuto a Lyon Sprague de Camp e a Lin Carter. Ciò si spiega facilmente: avendo cominciato per primi l’opera di adattamento dopo il suo creatore, essi hanno attinto in gran parte a episodi originali delle “Cronache Nemediane” non ancora sfruttati e, laddove si sono imbattuti in un episodio incompiuto, hanno preferito completarlo essi stessi, piuttosto che adattare episodi più oscuri, o solo marginalmente conaniani, che magari esistevano già in versione integrale. Essi insomma hanno preferito fare un “calco” fedele all’originale, anche se, avendoci presentato Conan parecchi anni dopo Howard, ce lo hanno proposto in una veste ulteriormente rielaborata. Altri successivi adattatori degni di nota delle storie del cimmero sono stati Bjorn Nyberg, Karl Edward Wagner e Poul Anderson.
Originariamente pubblicato sul numero 7 de LA ZONA MORTA, settembre 1991
Corretto e ampliato per il sito LA ZONA MORTA, dicembre 2007
07/01/2008, Davide Longoni