Negli anni Settanta i cannibali furono i protagonisti di moltissime pellicole horror splatter prettamente italiane che spesso si spacciavano per veri documentari sul mondo degli ultimi antropofagi della Terra. In realtà furono per alcuni registi del nostro paese il biglietto d’ingresso in un certo settore del mondo del cinema, quello fantastico-horror: da Ruggero Deodato a Umberto Lenzi a Joe D’Amato, molti sono stati i nomi che si sono cimentati in questo sottogenere trash che nel tempo, e nel mondo, ha riscosso comunque anche discreti consensi e si è regalato un certo pubblico di nicchia. Certo, si trattava di pellicole girate con pochi mezzi ed effetti speciali dozzinali, ma questi film conservano ancora oggi un irresistibile fascino, se vogliamo anche perverso, che li rende unici non solo nel loro genere, ma anche nel loro periodo, perché durarono lo spazio di pochi anni… poi furono sostituiti dagli zombi, che, se non altro, erano morti!
Il mito del cannibale però esiste da secoli e affonda le proprie radici nell’antichità e lo ritroviamo non solo nei popoli cosiddetti selvaggi, ma anche nel mondo occidentale: si tratta in pratica della rottura di uno dei tabù più radicati nel nostro inconscio, sia da un punto di vista morale che religioso. Uomo non mangia uomo e quando accade… si finisce all’Inferno: “La bocca sollevò dal fiero pasto…” non vi ricorda nulla? Il Conte Ugolino si ritrova nell’Inferno di Dante (Canto XXXIII, Nono Cerchio dell’Inferno) proprio a commettere questo sacrilegio!
Anche i Pemon, una tribù del Venezuela, hanno una loro versione del rito dell’antropofagia. Si racconta che Maichapue fosse un ragazzo incapace di costruire un tipitì (una piccola rete usata per ricavare la farina dalla pianta di tapioca spremendola), nonostante avesse già la moglie. Un giorno i suoi cognati decisero di andare a caccia senza portare con loro il ragazzo, lasciandolo al villaggio a costruire la rete. Il povero Maichapue cercò di fare come meglio poteva il tipitì, ma dopo svariati tentativi andati a vuoto si allontanò umiliato dall’abitazione comune prima che i parenti della moglie tornassero. Al loro rientro i due si adirarono e la stessa moglie provò imbarazzo per quell’insuccesso, ma il tipitì si doveva fare per poter preparare la cena: così i fratelli lo costruirono in poco tempo e poi fu preparato il pasto, cui Maichapue non partecipò, sentendosi in imbarazzo. La sua assenza però irritò molto i cognati che più tardi, mentre il ragazzo dormiva, andarono alla sua amaca e, con lui dentro, tirarono forte le due estremità spremendolo proprio come se fosse tapioca dentro un tipitì. Dopo questo trattamento ci vollero parecchi giorni prima che Maichapue potesse rimettersi in sesto. Un giorno che aveva fame, non molto tempo dopo, il ragazzo andò con la moglie e i suoi fratelli a caccia: dopo aver ucciso parecchie scimmie, i cognati decisero di allontanarsi dai due coniugi per proseguire altrove la ricerca del cibo, mentre Maichapue si fermò con la sua compagna. Non appena fu solo iniziò la sua vendetta: con un inganno fece entrare la moglie nel cesto delle scimmie, lo chiuse bene e lo mise sul fuoco. Le urla della malcapitata furono terribili, ma nessuno le udì e alla fine morì. Poi Maichapue le tagliò la testa, la mise insieme a quelle delle scimmie e il suo corpo con i corpi del bottino di caccia e riportò il tutto alla suocera. Questa, ignorando l’accaduto, preparò la cena con la carne che il ragazzo aveva portato, Quando rientrarono i due cognati, Maichapue si scusò per l’assenza della moglie che aveva voluto trattenersi fuori dal villaggio, tutti si apprestarono alla cena ed ognuno ebbe tra le carni anche un pezzo della sua congiunta.
Come dicevamo prima, il cannibalismo è un mito non solo tipico delle tribù selvagge, ma anche dell’Occidente civilizzato. E a tal proposito ci viene in aiuto la fiaba siciliana della Signora Mamma Draga. Si narra di un padre cattivo e nullafacente che voleva mandare le proprie cinque figlie a lavorare da una terribile orchessa. Nonostante le promesse di un buon trattamento, tutte si rifiutarono, così Mastro Francesco, questo il nome del padre, decise di andarci lui stesso. E infatti fu trattato proprio come un signore: Mamma Draga lo riempiva di bei vestiti, buoni piatti da mangiare, oro e divertimenti e tutto il suo lavoro consisteva nel far la spesa e far pulizia alla camera, dopodiché se ne stava in panciolle tutto il giorno senza fare altro. Passò il tempo e il padre pian piano ingrassava a dismisura cullato dal suo far niente, finché un bel giorno l’orchessa lo chiamò e quando Mastro Francesco le fu vicino, Mamma Draga l’afferrò per un braccio ghermendolo con le unghie lunghe ed affilate e gli disse: “Siedi e mangia, mangia e siedi. Che parte vuoi ti mangi? Dalla testa oppure dai piedi?”. Ricordandosi il rifiuto delle figlie all’offerta di lavoro, il padre rispose: “Chi alle figlie sue non crede, sia mangiato per il piede”. Allora la Signora lo prese per i piedi e se lo mangiò tutto intero in un solo boccone, senza lasciargli nemmeno le ossa.
Da questi due esempi, una leggenda sud-americana ed una favola italiana, possiamo vedere che il mito del cannibale è sempre stato presente nel genere umano. E si potrebbe andare ancora avanti, ricordando il mito classico di Crono che divora i suoi figli per non essere spodestato o la canzone del Duecento di Amis e Amil, dove quest’ultimo sacrifica i suoi due pargoli per la guarigione di Amis (anche se qui abbiamo un lieto fine, perchè i due bambini alla fine risorgono). E che dire delle vecchie fiabe di streghe e orchi affamati di bambini come “Hansel e Gretel” e “Pollicino”?
Certo, se per i popoli cosiddetti selvaggi l’antropofagia poteva essere ritenuta una giusta vendetta, per quelli europei invece l’atto del cannibalismo è sempre stato ritenuto ripugnante e condannabile sotto ogni punto di vista. Per questo il mondo occidentale ha sempre attribuito questa pratica a popoli considerati estranei, pertanto “selvaggi” nel vero senso del termine. Secondo il filosofo Engels è invece un momento di passaggio, uno stadio dell’uomo primitivo prima della sua evoluzione in essere civile, pertanto anche gli europei non erano stati esenti in passato da questa pratica.
In ogni caso, all’epoca delle grandi scoperte, gli occidentali si basavano anche su questo pregiudizio per analizzare i vari popoli “nuovi” che incontravano. Quando Cristoforo Colombo sbarcò ai Carabi ad esempio, quelle isole al tempo erano abitate da due razze diverse e rivali: gli Arawak e i Cannibal. Fu la fortuna a far incontrare prima a Colombo gli Arawak, che lo misero al corrente delle pratiche dell’altra etnia. Non si sa se realmente fosse così oppure se si trattasse solo di dicerie a causa della rivalità tra i due popoli, però sta di fato che presto il termine “cannibale” divenne sinonimo di “antropofago”.
Alcuni studiosi, partendo da questo dato non provato, giunsero alla conclusione che, dalla constatazione che il timore per l’uomo, unico animale che caccia senza essere cacciato, di regredire allo stato di possibile selvaggina è un timore archetipo, ne consegue che il cannibalismo in realtà non sia mai esistito. Purtroppo quest’analisi è stata in seguito ampiamente confutata.
E’ ormai cosa certa che gli Aztechi compissero sacrifici umani e che gli arti delle vittime fossero poi distribuiti come cibo ai partecipanti.
I Tupinamba, che abitavano le coste occidentali dell’America Meridionale nel XVI secolo, praticavano un complicato rito di esocannibalismo. I nemici che venivano catturati durante le battaglia, in un primo momento venivano omologati ai loro usi e trattati come parenti, poi uccisi e mangiati in una complessa cerimonia alla quale la stessa vittima prendeva parte. Il prigioniero riteneva infatti onorevole morire in terra nemica e sapeva che così i suoi lo avrebbero potuto vendicare. Se invece fosse fuggito, nessuno del suo villaggio d’origine lo avrebbe accolto.
Gli Yanomani, tribù dell’Amazzonia, praticano invece una forma di endocannibalismo, mangiando la cenere delle ossa dei loro cari defunti. Anche questo rito si compie con passaggi obbligati e regole ferree dettate soprattutto dal fatto che questo popolo nutre una profonda ripugnanza per la carne cruda.
Anche nell’Isola di Pasqua, come già abbiamo avuto modo di vedere, sono state raccolte testimonianze di anziani che ricordano la pratica dell’esocannibalismo.
I Cubeo della Colombia invece praticavano l’uno e l’altro tipo di antropofagia e alcuni aspetti di questi riti sono stati osservati ancora negli anni Trenta. Questa tribù in sostanza, durante le danze per la vittoria, usava mangiare i propri nemici e, alla conclusione della festa, la moglie del guerriero morto doveva mangiarne il pene per assicurarsi fertilità. Mentre con i defunti i Cubeo si comportavano esattamente come gli Yanomani, mangiandone solo le ossa.
La valenza del cannibalismo, dunque, assume connotati differente da popolo a popolo e quindi non ha alcun senso parlare della pratica di questo rito a prescindere dai singoli contesti. La diversità è dettata proprio dalle molteplici situazioni in cui ci colloca ed il tentativo di decontestualizzare l’antropofagia per trovarne un comune denominatore è vana e inutile ai fini scientifici. In ogni luogo in cui la si pratica infatti bisogna tener conto di troppi parametri differenti per poter tentare di trovare un aspetto intrinseco uguale per tutti. Piuttosto possiamo individuare alcuni aspetti in comune: prima di tutto, sicuramente la pratica del cannibalismo ha a che fare con le regole alimentari di questi popoli, sia che si voglia dare una spiegazione pragmatista di sopperimento a carenze proteiche sia che le abitudini alimentari servano a definire l’identità di un gruppo; in secondo luogo, l’antropofagia corrisponde al riconoscimento di ciò che è interno ad una etnia attraverso la differenziazione di ciò che invece è esterno.
Ora, dopo aver dato una panoramica alla realtà storica e sociale del cannibalismo, passiamo all’argomento da cui siamo partiti, ovvero il cinema dei cannibali.
Tre sono i nomi che si sono distinti più di tutti nel settore horror italiano per aver trattato questa tematica.
La palma d’oro per la migliore ed anche più cospicua produzione cannibalistica cinematografica va sicuramente a Ruggero Deodato con la sua trilogia: “Ultimo mondo cannibale” del 1977 (il primo film di genere in Italia), “Cannibal holocaust” del 1979 e “Inferno in diretta” del 1985, mentre si vocifera proprio quest’anno di un suo ritorno al genere con “Cannibal holocaust 2”.
Proseguiamo con Joe D’Amato: il suo primo approccio è del 1977 con “Emanuelle e gli ultimi cannibali”, pellicola a metà strada tra l’erotico e l’horror, ma è con il suo “Antropophagus” del 1980 che il regista sforna una pellicola non contaminata e con tutti i crismi del genere. La curiosità è che, a differenza di tutte le altre pellicole dei cannibali, questa non è ambientata in Amazzonia, ma in Grecia.
Continuiamo con Umberto Lenzi che ha dedicato parte della propria produzione cinematografica all’antropofagia con pellicole quali "Mangiati vivi" del 1980 e "Cannibal ferox" dell’anno seguente.
Terminiamo questa carrellata segnalando anche “La montagna del dio cannibale” (1978) di Sergio Martino, con un’avvenente Ursula Andress, e quello che tutt’oggi viene considerato l’ultimo cannibal-movie, ovvero “Nudo e selvaggio” (1985) di Michele Massimo Tarantini.
19/04/2008, Davide Longoni